Per distrazione

Marina Valensise

Non ci sono regole, non c’è una morale, ma ai figli che non ho avuto darei tutto l’amore che ho

"Mamma non ti preoccupare, qui a Montreal, a parte il freddo, va tutto bene. Stai tranquilla, per questi primi giorni ho dormito in casa di amici di amici. Ma da domani mi trasferisco con altri due miei compagni di università in una vera casa, un loft seminterrato”. Esulta il figlio diciottenne che ha abbandonato il nido per gettarsi in volo verso il Canada. Un po’ meno esulto io, sua madre, quando capisco che la vera casa è una specie di antro umido interrato, uno scantinato, come quello di “Bianca” di Nanni Moretti, dove il nevrotico Michele passava le giornate incollato davanti a una paio di finestrelle che gli arrivavano al mento, per inferire la moralità sociale dei passanti dalle loro scarpe. Mio figlio, però, non ha niente di nevrotico. E’ un tipo sveglio, curioso, intraprendente. Sin da piccolo, sapeva cosa avrebbe fatto da grande: lobbying industriale, intermediazione finanziaria, tecnologia dell’innovazione, armamenti… patito di legal thriller, educato in modo spartano da genitori piuttosto distratti e molto concentrati su se stessi. All’età di dieci anni – all’epoca i telefonini non esistevano – ha avuto le chiavi di casa. Unico obbligo, il pomeriggio, quando rientrava da scuola, non doveva far passare più di cinque minuti per avvertirmi che era arrivato a casa sano e salvo, farsi poi la merenda e finire i compiti in attesa del ritorno a casa dei grandi. Un bel giorno, però sforati di più di un’ora i venti minuti necessari al tragitto scuola-casa, mi preoccupo. Mi precipito a scuola e lo trovo nell’ufficio del preside, seduto comodamente ad aspettarmi in punizione. Cosa era successo? Aveva falsificato la mia firma, per di più sbianchettandola dopo aver fallito il primo tentativo di falso. Voleva farsi una giustificazione per l’assenza dalla lezione della prima ora.

Acqua passata. Imparata la lezione, mio figlio falsario ha preso la maturità e ha deciso di andarsene a studiare in Canada. Contando sul modesto contributo famigliare, si è subito trovato un lavoretto da studente in un’enoteca, un paio d’ore fra i tavoli per tre pomeriggi alla settimana, “così nel weekend potrò andarmene a New York, e farmi anche qualche vacanzetta ai Caraibi”, ha spiegato a sua madre, che quasi non si capacita di avere lei – persona normodotata, piuttosto distratta, sempre molto concentrata su di sé e animata da qualche ambizione – prodotto un figlio così scafato e provvisto di ottimi riflessi in fatto di organizzazione dell’esistenza. Lui non è mio figlio, ma io avrei voluto essere sua madre. Non appartengo al genere degli ostili alla riproduzione, tanto che avrei voluto mettere al mondo tre figli maschi. Il giorno del loro diciottesimo compleanno, in regalo, li avrei autorizzati all’uso reciproco del lei, proponendo da quel giorno in poi di vederci solo previo appuntamento. Le distrazioni della vita (c’era sempre qualche cosa da studiare, qualche paese da scoprire, qualche seminario da seguire, qualche nuovo carattere da esplorare) mi hanno impedito di realizzare questo desiderio.

 

 

Sicché oggi, evitato il rischio quasi certo di matricidio, posso solo sognare il profilo ideale di un figlio maschio ben risolto. Ma per essere anacronistica e irreale fino in fondo, voglio immaginare anche l’incubo della figlia femmina esaltata. Simmetrico e opposto al caso del ragazzo scafato che se ne va a studiare in Canada, è quella della figlia viziata frutto della stessa coppia disfunzionale: madre distratta, lievemente depressa, padre assente, ma ambizioso e megalomane. Sin da piccola, la bambina mostra forte personalità e un carattere dispotico. In compenso, ha un temperamento da artista e una passione per la musica. A diciotto anni, dunque, viene spedita a studiare in una piccola città di provincia, per rafforzare il carattere al riparo delle tentazioni della metropoli. Oltre la musica, la ragazza coltiva anche altre arti: si tinge i capelli di verde, e unghie di nero, si infila l’anello al naso e indossa minigonne tanto vertiginose da indurre alla molestia.

Finiti gli studi, il padre, megalomane e ambizioso, ma sordo e cieco ai segnali di disagio, catapulta la figlia in America, per farle seguire un prestigioso corso di perfezionamento. Precipitata nella grande mela, la ragazza finisce in balia di un nervous break down. Non mangia, non dorme, non parla, non esce di casa e fuma in continuazione. Rimpatriata d’urgenza, cerca di ricrearsi un habitat con un compagno di studi bello e un po’ selvaggio, che la mette subito incinta, la riempie di botte e alla fine l’abbandona per consegnarla al suo destino di ragazza madre. Non vorrei mai trovare una morale, e non so dare regole agli altri, però dal mio punto di osservazione, circondata di nipoti e di ragazzi e di piccole persone piene di entusiasmo e curiosità, mi sento di dare un consiglio: asteniamoci dal proiettare le nostre ambizioni sui figli, trasformandoli in strumento di riscatto delle nostre frustrazioni. Meglio coltivare il distacco o una forma di sana disattenzione, meglio nutrire un’affettuosa sorpresa pur di lasciare spazio ai figli, per farli crescere liberi senza soffocarli, aiutarli a scoprire le loro doti e a svilupparle senza ansia. L’unico ingrediente indispensabile è l’amore. Datene a piene mani, se ne siete capaci; e se anche non ne siete capaci, datene lo stesso. Qualcosa di buono accadrà.

L'ultimo saggio di Marina Valensise è “La cultura è come la marmellata”, adesso in libreria per Marsilio

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