foto di Shane Hirschman via Flickr

Il Figlio

Un giorno di pioggia

Nadia Terranova

I divieti dell’infanzia e le superbe pozzanghere di Gogol’, nelle quali è bello gettarsi anche da grandi

Nell’unico giorno di pioggia di un’altrimenti afosa settimana di indian summer, New York, come ogni città, si è riempita di pozzanghere, piccoli mari in miniatura che incoraggiano bambini coraggiosi a prendere per mano la segreta voglia dei genitori di sfidare il freddo alle ossa, i capelli crespi, la minaccia del raffreddore, bambini che schiacciando il naso contro un vetro come me pensano: che divieto scemo, tanto non ci si ammala per davvero. Un decenne incappucciato nella plastica vira il suo monopattino verso un acquitrino a un passo dalle strisce pedonali, la madre disobbedisce all’istinto di rimproverarlo, in faccia le si legge un cedimento, quel monopattino è diventato un transatlantico e chi è lei per interrompere la traversata? Da piccola non capivo perché non mi fosse permesso saltare nelle pozzanghere mentre andavo a scuola. Mi ero persuasa senza troppe difficoltà che le caramelle dagli sconosciuti fossero avvelenate e attraversare la strada col rosso non risultasse la migliore delle idee, ma guadare una piccola palude, dopo che mi erano stati comprati adeguati stivali di gomma rossa e avevo abbottonato stretto il giubbotto col cappuccio, mi sembrava normalissimo; il pericolo di raffreddarmi contraddiceva in modo irrazionale l’armatura impermeabile di cui ero rivestita.

 

 

Non invidio i genitori di oggi che devono spiegare ai figli che no, non possono rotolarsi nel fango come Peppa Pig, dopo aver passato il pomeriggio a riderne insieme. All’ultimo piano del New Museum, siccome l’arte permette di fare quello che di solito è proibito, l’artista svizzera Pipilotti Rist ha installato sul soffitto le sue videopozzanghere animate (la mostra “Pixel Forest” è stata inaugurata il ventisei ottobre e durerà fino a metà gennaio). Giovani e severe mamme si tolgono le scarpe per stendersi su letti verdi e blu e fissare quelle macchie mobili di colore, i bambini si elettrizzano con lo sguardo all’insù, saltano sui materassi e stritolano cuscini, si rilassano e si mettono le dita nel naso, hanno capito di essere scivolati in un territorio franco e ne approfittano. Nelle pozzanghere vere devono tuffarsi di nascosto, ma per sedici dollari le mamme li portano a vedere quelle finte: la vita fa sempre strani giri per permetterci di fare quello che ci piace. Sfidando ogni senso del ridicolo si potrebbe cantare “Hoppipolla”, una parola composta che significa “saltare nelle pozzanghere” (la risposta islandese alla precisione delle parole tedesche, ma con più allegria), ed è anche il titolo di un singolo dei Sigur Ros.

Oppure si può fare della pozzanghera una metafora di tutto, come fece Nabokov in “Un mondo sinistro”: c’è un uomo in ospedale, al capezzale della moglie, che guarda fuori dalla finestra “una pozzanghera oblunga incastonata nell’asfalto ruvido; simile a un’orma stravagante riempita fino all’orlo di mercurio; simile a un foro spatoliforme attraverso il quale si leggono gli inferi del cielo”, lì dentro vede specchiato il mondo e il suo contrario, la realtà e il suo rovescio, la morte e la corteccia degli alberi. Del resto, a fare letteratura sulla forma delle nuvole sono buoni tutti, è dallo sguardo basso sui ristagni che si misura la grandezza di uno scrittore. Si pensi al Gogol’ di “Mirgorod”: “Se voi farete il vostro ingresso dal lato della piazza, vi fermerete ad ammirarne la vista: v’è una pozzanghera, una superba pozzanghera! Unica, quale mai ne vedeste di simili! Occupa quasi tutta la piazza. Stupenda pozzanghera! Case e casette, che da lontano si possono scambiare per biche di fieno, la circondano e si stupiscono della sua venustà”.

Allora lo faccio, giuro che lo faccio: sarà il gusto di disobbedire con qualche decennio di ritardo a un divieto dell’infanzia, sarà l’ostinazione a dimostrare che ci si ammala di più per l’aria condizionata nei supermercati che per due gocce d’acqua fra i piedi. Sarà l’effetto di vivere a Roma, dove ogni anno e a ogni acquazzone sopravvivo a involontari scivoloni dentro quelle che sembravano pozzanghere e invece erano infernali buchi neri che l’acqua ha scavato nell’asfalto. Sospetto che Wislawa Szymborska parlasse della Prenestina, “Scansavo le pozzanghere / specie quelle recenti, dopo la pioggia. / Dopotutto qualcuna poteva non avere fondo / benché sembrasse come le altre”: non è horror vacui, è un documentario sull’Urbe allagata. Una pozzanghera è la minaccia orribile di una voragine, una rassicurante certezza di borbottio contro tutti i sindaci passati presenti e futuri, che residenti romani saremmo se perdessimo la secolare tradizione di lamentarci delle buche alluvionate? Certo, è ovunque così, ma fuori dal raccordo, fuori dal vecchio continente, per cinque minuti si può fare finta di no, e se c’è slittato indenne un monopattino possiamo anche noi allungare un piede nell’acqua e magari anche l’altro, in fondo è tutta la vita che aspettiamo, e con aria un po’ scema e un po’ trionfante vedere di nascosto l’effetto che fa.

Il romanzo di Nadia Terranova “Gli anni al contrario” (Einaudi stile libero) ha vinto The Bridge Book Award 2016

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