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Crisi della democrazia?

Si indica il caso Trump, ma i motivi di debolezza sono altri: dal sistema di suffragio alla rapidità decisionale. Parla Cassese

Professor Cassese, tutto il mondo è stupito della situazione che si è venuta a creare negli Stati Uniti: come mai una delle democrazie più antiche e più mature ha potuto mandare al vertice una persona tanto inadatta al compito di presidente degli Stati Uniti?

E’ una domanda importante, ma non ne va sopravvalutata la portata, sia per l’esistenza in quella democrazia di contro-poteri, che possono controbilanciare e controllare Trump, sia per la resilienza di quell’ordinamento. Ma, nello stesso tempo, non possono sottovalutarsi i segni di malessere delle democrazie moderne.

Che sono…?

Si prepari a un lungo elenco, che comincia dalla difficile coesistenza, fianco a fianco, nel mondo, di paesi democratici e paesi non democratici. Questi ultimi sono circa la metà o due terzi dei 193 stati che fanno parte delle Nazioni Unite (la cifra dipende dai criteri che si assumono per definire democratico un reggimento politico). Ora, i governi nazionali debbono continuamente trattare, informarsi reciprocamente, negoziare, affrontarsi. Nel far questo, emergono le difficoltà delle democrazie. I capi di queste ultime si trovano chiaramente in difficoltà, rispetto ai capi di stati non democratici, perché questi ultimi possono assumere decisioni più rapidamente, non hanno bisogno di consultare i vari gruppi e organi che operano nelle moderne poliarchie, possono procedere più speditamente.

Questo riguarda l’esterno delle democrazie. Ma quali sono i segni di difficoltà interni?

Ve ne sono molti. Emergono a poco a poco antiche lacune delle democrazie: per esempio, la circostanza che la più antica democrazia, quella britannica, toglie ai prigionieri il diritto di voto, mentre le democrazie moderne comportano un suffragio universale. Si affacciano problemi nuovi che riguardano ancora l’universalità del suffragio: ad esempio, la questione dei diritti politici degli immigrati regolari, che si sono inseriti stabilmente nelle comunità nazionali. Nel primo e nel secondo caso, si riapre un antico problema, quello che ha accompagnato per quasi cento anni la storia della democrazia, il problema dell’ampiezza del suffragio. Si è cominciato con il diritto di voto limitato secondo criteri di istruzione e di censo, ma escludendo anche categorie varie, come le donne e i “colored”. Poi lentamente si è arrivati al cosiddetto suffragio universale, che universale non era perché le donne rimanevano escluse, infine si è arrivati al suffragio veramente universale, che però non è ancora interamente universale, perché esclude, per esempio, nel Regno Unito, i prigionieri e, in Italia e in quasi tutti gli altri paesi moderni sviluppati, gli immigrati regolari e stabili.


Così siamo ancora nella linea della classica tradizione di sviluppo della democrazia, quella dell’allargamento della sua base.
Sì, qui viene un secondo ordine di problemi, quello della divaricazione tra aventi diritto al voto e votanti. Quasi ovunque vi sono segni di stanchezza. La partecipazione politica passiva è ancora alta, riguarda due terzi dei votanti, ma la partecipazione politica attiva – per esempio, l’esercizio del diritto di voto – è bassa: in molti paesi comprende solo la metà degli aventi diritto al voto. Insomma, l’allargamento del suffragio c’è stato, ma le persone non vanno a votare.

  

Perché?

Non lo sappiamo, ma possiamo fare alcune ipotesi. Quella più diffusa è che vi sia una ripulsa del sistema, tanto forte da spingere alla non partecipazione. A chi non vota non va bene nessuna delle “offerte” che i partiti presentano. Una seconda ipotesi è che le persone vivono di più nella società, nei suoi rami bassi (il volontariato, le organizzazioni religiose, i gruppi sportivi), meno nella “societas” politica: preferiscono evitare l’associazionismo “multi-purpose”. Una terza ipotesi è che, conquistato il diritto di voto, questo diviene meno importante, e si afferma il diritto di non esercitarlo (ciò che presuppone una sorta di adesione al corrente stato di cose). Mi preoccupa di più un ulteriore fenomeno.

  

Quale?

La non partecipazione prima del diritto di voto, la crisi dei partiti, il ritrarsi nell’individualismo, il malessere dell’associazionismo politico. Qui sta il vero tallone d’Achille delle moderne democrazie. Quel che colpì Tocqueville nel famoso viaggio del 1831, che dette luogo al più famoso libro sulla democrazia, quattro anni dopo, fu il pullulare di organismi della società civile, il forte senso civico. Questo ora manca, perché il web pare soddisfare il bisogno di interazione sociale. Ma così non è. Internet consente di veicolare opinioni e reazioni, mentre la discussione che avviene “de visu” è più difficile. La rete tende a incentivare gruppi che la pensano nello stesso modo e così rafforzano le loro opinioni, mentre la sezione di partito di una volta metteva insieme persone che partivano da punti di vista diversi, dibattevano convincevano e si facevano convincere. Poi, c’è un altro segno di malessere o di crisi.

  

Quale?

Quello delle democrazie illiberali, che accettano l’elezione, ma non consentono la libera espressione delle opinioni, limitano la libertà di associazione, violano il principio di indipendenza dei giudici. Avrà capito che mi riferisco a Turchia, Ungheria, Polonia. Qui si nota una contraddizione tra l’accettazione della democrazia – elettoralismo e il rifiuto della democrazia – libertà. E’ chiaro che il principio di democrazia e quello di libertà sono su piani diversi, se non altro perché il secondo è nato almeno due secoli prima del principio di democrazia. Ma è anche vero che i due princìpi si influenzano reciprocamente: come possono esserci libere votazioni se le persone non hanno avuto la possibilità di esprimersi, di convincere altri a votare in un certo modo, ad associarsi per influire sull’azione di governo e sulle scelte dell’elettorato?

E la capacità di decisione dalla democrazia, quella che molti chiamano “output democracy”, il soddisfare i cittadini con la bontà dei servizi resi?

Anche questa incontra difficoltà. Una dittatura decide più rapidamente. Le democrazie sono più lente, qualcuno dice fragili, altri le chiama bloccate. Se un regime è democratico, deve tener conto degli interessi sanitari collettivi, delle preoccupazioni di molti per l’ambiente, della tutela dei diritti fondamentali, delle garanzie dei lavoratori. Insomma, deve tener conto di una grande quantità di interessi e domande collettive, che richiedono dialogo, dibattito, rallentano, spesso intralciano. Per non parlare dell’indipendenza della magistratura, che, quando è richiesta di intervenire, deve compiere un riesame delle decisioni raggiunte, riesame che comporta un ulteriore rallentamento.

   

Se tanti sono i segni di crisi, possiamo allora concludere che la democrazia è avviata sulla strada del declino?

No, la democrazia continua a vivere di crisi, che sono benefiche per la democrazia. La democrazia cerca in se stessa anticorpi, che possano bilanciare o almeno minimizzare i costi degli inconvenienti che ho elencato. Non dimentichi che la democrazia ha superato con successo tutte le crisi che ha incontrato sulla propria strada con gli allargamenti del suffragio, per almeno un secolo.

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