Marco Giampaolo (foto LaPresse)

La pazienza di Marco Giampaolo

Leo Lombardi

Dalla panchina della Juve sfiorata agli esoneri e la serie C. La nuova vita alla Samp di Giampaolo, che non ha mai smesso di insegnare calcio

Solo gli allenatori si giocano tutto in novanta minuti. Il calciatore no. Sa che, se sbaglia una partita, ce ne sarà sempre una successiva per rimediare. Per gli allenatori ogni gara rischia invece di essere un punto di non ritorno: sbagli e sei messo alla porta. Critica e tifosi avevano cominciato a preparare le valigie di Marco Giampaolo un anno fa, di questi tempi. Ieri, come oggi, c’era il derby di Genova. Lui lo affrontava da nuovo tecnico, con una Sampdoria in affanno: otto punti in otto giornate, biglietto di sola andata in caso di sconfitta con il Genoa. Ma i derby sono una partita a sé, una delle poche frasi fatte realmente vere nel mondo del pallone. Perché le differenze si azzerano, entrano in gioco aspetti che vanno oltre quello tecnico e tattico. Torino è un’eccezione di questi anni, per lo strapotere juventino e le mancanze granata. Ma a Milano, Roma, Genova e Verona è complicato indicare alla vigilia chi potrà vincere. Giampaolo fa suo quello del 22 ottobre. E non si ferma, ripetendosi al ritorno per entrare nella storia e nel cuore dei tifosi: dal 1959-60 la Sampdoria non conquistava nella stessa stagione due derby in serie A.

 

  

Oggi il tecnico è tornato a essere uno più apprezzati in Italia. Come gli era capitato tempo addietro, quando Fabio Capello lo elogiava: “Mi piace molto, ma lo hanno esonerato”. E’ il 2009, Giampaolo ha appena vissuto una folle estate. Come folle è la Juventus dell’epoca, alle prese con una ricostruzione complicata dopo il ruzzolone in serie B figlio di Calciopoli. Gli allenatori vanno e vengono. Soprattutto in tanti pensano di comandare, muovendosi l’uno all’insaputa dell’altro. Il direttore sportivo Alessio Secco contatta Giampaolo, appena salvatosi a Siena. Si incontrano, si parlano, si piacciono. Tutto deciso: campagna acquisti, ritiro, staff. Non lo sa nessuno, nemmeno la famiglia dell’allenatore. Giampaolo va a letto da tecnico della Juventus, il giorno dopo viene confermato Ciro Ferrara, che aveva sostituito Claudio Ranieri a due giornate dalla fine. In società vince la fazione che spingeva per la continuità, sostenuta da anziani dello spogliatoio come Alex Del Piero. Giampaolo torna a Siena con rimpianti (“Meritavo la Juve in quel momento”), viene esonerato dopo dieci giornate. Ferrara non dura molto di più, licenziato a fine gennaio e deluso, sosterrà lui, proprio da chi aveva spinto per tenerlo.

 

E’ la seconda occasione in cui Giampaolo fa parlare di sé. La prima era stata a Cagliari. Vivere di calcio da quelle parti non è mai stato semplice, con Massimo Cellino presidente. Giocatori dagli altari alla polvere, allenatori che saltano allegramente. Giampaolo non si sottrae. Arriva nel 2006 e viene esonerato il 17 dicembre, per riprendere il suo posto il 26 febbraio. Si salva e in estate, d’accordo con la società, vara la rivoluzione: via nomi amati come Suazo, Esposito e Langella, dentro i giovani. Dalle individualità al collettivo. Lui dura poco comunque, stabilendo il record di un esonero senza aver perso la partita. Addirittura non la gioca, perché domenica 11 novembre muore Gabriele Sandri, tifoso della Lazio ucciso da un colpo di pistola dell’agente Luigi Spaccarotella nell’area di servizio di Badia al Pino, vicino Arezzo. Si stava recando a Milano per la gara con l’Inter. Roma-Cagliari è il match di serata, viene rinviato. Giampaolo è esonerato due giorni dopo per divergenze di idee. Sulla giostra sale Nedo Sonetti, che si dimette nel giro di un mese. Cellino pensa di muoversi secondo abitudine e chiama Giampaolo, sotto contratto fino al 2010. Riceve un comunicato che è uno schiaffo in faccia: “Pur nella consapevolezza del danno economico che ne deriverà, rinuncio a tornare a Cagliari. Orgoglio e dignità non hanno prezzo”.

 

Orgoglio e dignità non sono parole scelte a caso, le impara in famiglia. Papà muratore e mamma operaia, si trasferiscono in Svizzera per lavorare. Non resistono, nel 1968 tornano a casa, a Giulianova in Abruzzo. Marco ha un anno, ha fatto in tempo a nascere là, tanto che oggi molti – sbagliando – lo definiscono “il tecnico di Bellinzona”, mentre lui con la Svizzera c’entra come Pinochet con il Venezuela. Le idee paterne sono di sinistra vecchio stampo, il figlio cresce con l’etica del lavoro unita al senso di giustizia, cui aggiunge la testardaggine tutta abruzzese. Vuole giocare a pallone, diventa “un play ordinato, discreta tecnica e molta generosità”. Il talento appartiene al fratello Federico, tre anni di meno, attaccante. A 18 anni lo prende la Juventus, che lo tratta come avrebbe trattato il fratello: illuso e allontanato. Buona carriera senza mai esordire in bianconero. A proposito di carriere, quella di Marco si ferma a 30 anni. Tanta serie C, il picco ad Andria nel 1995-96 in B, nel 1997 lo stop. Una fine forzata per le cartilagini consumate delle caviglie, insopportabile il dolore. Comincia la seconda fase: “Da ragazzino dicevo di voler fare il calciatore, da calciatore prendevo appunti e dicevo di voler diventare allenatore”. Giampaolo va da Andrea Iaconi, vicino di casa a Giulianova e suo ex dirigente. E’ il diesse del Pescara, lo imbarca: osservatore, team manager, infine secondo. Incontra Giovanni Galeone, un’icona. E’ l’allenatore della promozione nel 1987, l’ideatore di un 4-3-3 che regalava spettacolo e risultati. All’ultima giornata conquista la serie A battendo il Parma di Arrigo Sacchi che, di lì a poco, avrebbe esportato il 4-4-2 al Milan berlusconiano. Galeone ha una conoscenza smisurata del calcio come dei vini, Giampaolo è attento a entrambi gli aspetti, integrando le idee sulla fase difensiva apprese da Gigi Delneri. Pescara è terreno fertile per chi allena. Galeone aveva in campo Gian Piero Gasperini e Massimiliano Allegri. In panchina si sono seduti Maurizio Sarri, Eusebio Di Francesco e Cristian Bucchi. Tutta gente che oggi lavora in A, stazionando abitualmente nelle zone alte. Giampaolo ascolta, impara e assorbe. Ha però in testa il 4-4-2, quello che ammira nella prima partita da spettatore ad Ascoli. C’è il Milan, viene folgorato sulla via di Damasco in versione Sacchi: aggressività, occupazione degli spazi dove però “conta poco un numero 10”. Giampaolo è un integralista ben temperato, il suo sistema di gioco ama il talento. Cresce nel culto paterno dell’Inter, quella della filastrocca Sarti-Burgnich-Facchetti. La delusione più grande è il mancato acquisto di Rabah Madjer, il “tacco di Allah” per il gol nella finale di Coppa dei Campioni vinta con il Porto nel 1987. Comincia a mettere in pratica le idee a casa sua, a Giulianova, dove Adriano Buffoni lo prende come vice. Favore ricambiato nel 2003. Giampaolo da un anno è a Treviso, gli vogliono affidare la prima squadra ma è senza patentino. Gli affiancano Buffoni, che mette faccia e voce al momento delle interviste. Come avviene ad Ascoli dal 2004 al 2006, sempre in B. Fa coppia con Massimo Silva, vecchia gloria del posto e una stagione da attaccante del Milan nel curriculum. Centra una promozione rocambolesca tra società retrocesse per illecito (Genoa) o cancellate dai debiti (Torino e Perugia). L’Ascoli finisce sesto, si ritrova d’improvviso in A a metà luglio. Costruisce rapidamente una squadra, Giampaolo ci mette il suo. Arrivano un decimo posto e una squalifica di due mesi per aver lavorato senza abilitazione. La ottiene ai tempi di Cagliari, con una tesi sulla settimana tipo dell’allenatore.

 

Risultati e idee lo hanno reso tecnico emergente, ma la vicenda Juve lascia il segno. Tutti si attendono qualcosa in più, si registrano invece esoneri in serie. Quello già ricordato a Siena, quello del 2010-11 a Catania e quello del 2011-12 a Cesena. In Sicilia lo cacciano con 22 punti in 20 partite. Gli danno del difensivista, lui ribatte: “Difensivista è chi gioca con undici terzini”. Il problema è che, in Romagna, ha un attacco con Eder, Mutu e Giaccherini: raccoglie 3 gol in 10 giornate, ultimissimo posto e benservito. Il cono d’ombra si allunga, quando nel 2013 lo chiamano a Brescia si parla già di ultima occasione. Il salvagente lo lancia il vecchio amico Iaconi, sta cercando di tenere a galla una barca che vive male il tramonto del presidente Gino Corioni. Brescia è piazza complicata: i tifosi pretendono, gli ultrà vogliono avere voce nelle scelte societarie. Giampaolo è accolto male, perché prende il posto di Alessandro Calori: uno di famiglia. La situazione peggiora quando sceglie come secondo Fabio Gallo, suo capitano a Treviso. La colpa del vice è grave, per un bresciano: ha giocato nell’odiata Atalanta. Gallo rinuncia, Giampaolo realizza di essere stato catapultato in un ambiente ostile. In ritiro prova a gettare un ramoscello d’ulivo e incontra gli ultrà. Uno critica la sua idea di calcio, “vai da Corioni e digli di esonerarmi” la replica. La situazione precipita dopo una sconfitta interna con il Crotone. Gli ultrà assediano, vogliono parlare. Giampaolo acconsente solo quando glielo chiede la Digos. Il faccia a faccia è umiliante: “Qui comandano loro”. E’ sabato 21 settembre, alla ripresa non si presenta. Telefono staccato, è letteralmente svanito. Corioni è sconcertato (“Atteggiamento incomprensibile, sono preoccupato”), si mobilita “Chi l’ha visto”. E’ la terza occasione in cui Giampaolo fa notizia. Tutti lo cercano, nessuno lo trova. Lo sa solo Federico, il fratello: “Sta bene. E’ a casa, a Giulianova”. Stacca, pensa, dice addio: “Sono stato fatto passare per pazzo, invece sono molto lucido. Semplicemente non mi riconosco in questo calcio selvaggio”.

 

Per ripartire serve qualcosa di completamente diverso. Una squadra presa per la prima volta in corsa, una categoria sconosciuta. A novembre 2014 Giampaolo si presenta a Cremona, in serie C. Lui che aveva sfiorato la Juventus, ricomincia dal basso. E’ un altro calcio, si salva con serenità. Lancia Federico Di Francesco (figlio di Eusebio), torna appetibile. A Empoli c’è Sarri, compagno di corso a Coverciano. Sta per andare a Napoli, consiglia di ingaggiarlo. La Cremonese non punta i piedi, la presentazione ufficiale è una liberazione per Giampaolo: “Mi hanno tolto l’ergastolo, magari con la condizionale”. Per la prima volta firma un annuale, sapendo che lo attendono al varco. Lui ha imparato a smussare i toni, guardando al passato dice “se a Cagliari fossi stato più furbo o opportunista sarei andato avanti”. Furbo o opportunista no, realista sì. Non smonta la macchina di Sarri, passa al 4-3-1-2 con quel trequartista di cui aveva notato la mancanza in Sacchi. Ha intuizioni sue (l’arretramento di Paredes davanti alla difesa, Zielinski mezzala), si salva in anticipo: nessuno riapre le porte del carcere.

 

 

Oggi l’unica prigione che conosce è quella di Marassi, a Genova, di fianco allo stadio. La Sampdoria è diventata la nuova casa: c’è il mare, come a Giulianova, dove passeggiare con il sigaro toscano che non manca mai. L’ha portato Carlo Osti, diesse che aveva creduto in lui a Treviso: “E’ il club tagliato su misura per Marco”. Lo è perché il presidente Massimo Ferrero, al di là del folklore, lascia mano libera ai collaboratori. Lo è perché è una società organizzata. Lo è perché può operare senza pressioni, rassicurato da un contratto fino al 2020. Un lavoro che porta risultati e utili. In estate sono stati venduti Muriel, Schick e Skriniar per un’ottantina di milioni. Ora si parla di Lucas Torreira, pagato due milioni al Pescara e già salito a 40 di valutazione. E’ il calciatore modello per Giampaolo, 167 centimetri di corsa e intelligenza, secondo gli insegnamenti del Barcellona, studiato in loco quando era a spasso: “Il presupposto di Guardiola è la scelta del giocatore. Tra uno alto un metro e 90 e uno meno dotato fisicamente, ma con il piede buono, si prende il secondo”. Il mondo di Giampaolo non è più il bianco e nero degli inizi. Più sfumato, più accondiscendente, senza recedere da rispetto dei ruoli e cultura del lavoro: “Non chiedo le chiavi del club, ma dello spogliatoio sì”. E così ha chiuso la porta ad Antonio Cassano, non adatto al progetto. Il talento non si discute, ma con Giampaolo si lavora sodo. Oggi tutti parlano di droni, lui a Treviso piazzava le telecamere sui pali dell’illuminazione per riprendere i movimenti dall’alto. Li fa rivedere ai calciatori cui chiede occupazione degli spazi, spostamenti senza palla, equilibri, sovrapposizioni. E di fidarsi, soprattutto. Questi lo seguono, pure quando sono fuori dalle scelte. Chiedere a Luca Cigarini, ora al Cagliari. Era arrivato dall’Atalanta per giocare, si è ritrovato riserva di Torreira: “Dal punto di vista umano le cose non sono andate, ma Giampaolo ha idee e in campo è uno dei tecnici che mi ha insegnato di più”, dice. Idee ora patrimonio della Sampdoria, domani chissà. Con quel suo volto da pessimismo storico, poco incline al sorriso o all’esultanza al momento di un gol, pensa alla Juventus come “un treno che è passato e forse non tornerà più”. Vero, ma fino a un certo punto. Nell’estate 2016 Giampaolo era stato in corsa per la panchina del Milan, erano i giorni di Silvio Berlusconi in uscita e dell’eterno closing. Come alla Juventus, alla fine ha vinto l’altro. Ovvero Vincenzo Montella. Ma Giampaolo sa aspettare.

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