Chi vuole fermare la gogna delle intercettazioni? Girotondo di opinioni

Annalisa Chirico

Avvocati, magistrati, politici e giuristi sulla proposta del Foglio di non trasformare i giornali nella buca delle lettere delle procure

Stop alla pubblicazione di intercettazioni e brogliacci, di qualsiasi atto d’indagine, fino al dibattimento. Basta giocare con le vite degli altri. Luciano Violante si domanda come sia possibile che “una magistratura che prende Riina, Provenzano, i capi mafia non riesca a individuare chi dà illegalmente la notizia a un giornalista”. Non è mistero che le fughe di notizie sulle indagini dipendano “o dai pm o dalla polizia giudiziaria”, l’ha detto a chiare lettere il vicepresidente del Csm Giovanni Legnini, citando le affermazioni del procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri secondo il quale “quando c'è una violazione, una fuga di notizie, esce o dalla procura o dalla polizia giudiziaria. E, in genere, quando la polizia giudiziaria fa la fuga di notizie, c'è quantomeno una sorta di silenzio-assenso da parte della procura. Altrimenti le notizie non escono fuori”. Illeciti commessi all’interno degli uffici giudiziari e rispetto ai quali l’avvocato è inerme.

 

 

Il clamore nazionale è legato alla vicenda Consip e alla conversazione privata, mai depositata e perciò ignota alle parti, tra Renzi padre e figlio. Federico Bagattini, avvocato di Tiziano Renzi, punta l’attenzione sull’inefficacia sanzionatoria: “Comprendo e condivido lo spirito della proposta del Foglio, ormai siamo allo stillicidio mediatico quotidiano. Dobbiamo difenderci sui giornali prima che nei tribunali. Secondo me però il problema risiede altrove: già ora le intercettazioni non possono essere pubblicate fino a quando non sono a disposizione della difesa, termine che sostanzialmente coincide con il rinvio a giudizio. La questione cruciale riguarda le sanzioni previste per chi pubblica e per chi passa le veline. L’art. 684 del Codice prevede l’arresto fino a quindici giorni o un’ammenda fino a un massimo di 258 euro. Manca poi del tutto un sistema di sanzioni a livello disciplinare per i titolari degli uffici di pm e polizia giudiziaria dai quali i documenti fuoriescono. Per i difensori il problema non si pone perché se possiedono i documenti ne possono anche disporre”. Sanzioni eccessivamente blande rendono più conveniente procurarsi illegalmente una conversazione secretata al fine di pubblicarla e vendere qualche copia in più, piuttosto che rispettare la legge e il riserbo delle indagini.

 

 

 

Per il segretario dell’Anm Edoardo Cilenti, “le norme che vietano la pubblicazione delle intercettazioni già esistono. Il problema è che vengono violate e le sanzioni sono troppo tenui. La colpa non è però del giornalista, che svolge il suo mestiere, ma di chi gli passa le informazioni. Non è affatto agevole individuare i responsabili. Al contrario di Gratteri, che stimo, io ho meno certezze, e non mi convince l’idea di una sorta di responsabilità oggettiva della polizia giudiziaria a capo della sala di ascolto, e nemmeno la teoria del silenzio assenso da parte del pm. In indagini complesse vi sono più ufficiali di pg che scaricano centinaia di registrazioni, e  perfino il commesso che porta gli atti col carrello potrebbe prestarsi a una copia delle trascrizioni. Si parla invece troppo poco della recente norma di mezza estate di cui al decreto legislativo 177 del 2016, seminascosta,  con cui si stabilisce che la pg deve comunicare ai propri superiori ciò che scopre. Una scala gerarchica che preserva molto meno le indagini. Una disposizione sorprendente, un rischio di addio al segreto investigativo che meriterebbe una riflessione. È fin troppo ovvio poi che conversazioni attinenti alla sfera privata, non rilevanti, non dovrebbero mai e poi mai essere pubblicate. In nome di tale sacrosanto principio già diversi procuratori della Repubblica sono intervenuti richiedendo alla polizia giudiziaria di non riportare nelle informative il contenuto delle conversazioni superflue ai fini investigativi, in modo da evitarne la diffusione”.

 

 

È contrario alla proposta del Foglio il sottosegretario alla Giustizia Cosimo Ferri: “La strada non può essere quella di introdurre un divieto assoluto di pubblicazione delle intercettazioni fino al dibattimento perché verrebbe meno quel giusto equilibrio tra i diritti costituzionali alla riservatezza e alla libertà di informazione. Oggi esiste già un divieto, previsto dall'art. 114 del Codice che però risulta poco efficace anche perché la relativa violazione è punita come contravvenzione. Si deve certamente convenire sul fatto che bisogna introdurre opportuni criteri per rendere effettivi gli strumenti atti a contemperare i valori in gioco, come insegna la Corte costituzionale a proposito del bilanciamento tra tutela del diritto alla riservatezza ed esigenze delle indagini. In questo quadro, i principi del ddl in discussione possono condurre ad una soluzione equilibrata nel binario della indefettibile presenza dei requisiti della pertinenza dei contenuti - rispetto al fatto reato da accertare - e della rilevanza degli stessi rispetto a vicende ed a persone estranee alle indagini. Le garanzie vanno ricercate sul piano della scansione delle fasi procedimentali in cui avviene la selezione e valutazione del materiale, e responsabilizzando il pm nell'ambito della procedura di cui all'art. 268 cpp e nella vigilanza sulla polizia giudiziaria che dovrà astenersi dal trascrivere le comunicazioni prive di quei requisiti. È evidente che non si possa consentire che uno strumento così efficace perda valore e credibilità a causa di pubblicazioni che mirino a sviarne la funzione per gossip, coinvolgimento di soggetti non indagati e diffusione di contenuti personali e non rilevanti”. 

 

 

A sentire l’avvocato Beniamino Migliucci, presidente dell’Unione delle Camere penali italiane, “il problema principale è costituito dal fatto che non si rispettano norme che già esistono. Non si scopre mai chi divulga gli atti coperti dal segreto, mentre sarebbe molto semplice e le indagini dovrebbero essere affidate a una Procura diversa rispetto a quella da dove le notizie sono uscite. La fuga di notizie proviene dal circuito inquirente e si tratta di un reato grave, perché chi conosce, in ragione del suo ufficio, atti sottoposti al segreto, non dovrebbe ovviamente rivelarli. Così come costituisce reato pubblicare ciò che proviene da un reato. La legge, inoltre, già prevede che gli atti del fascicolo del pm, e dunque anche le intercettazioni, non debbano essere pubblicati fino a che non siano concluse le indagini preliminari. Il problema fondamentale è dunque che le violazioni non vengono sanzionate e che non si procede nel contraddittorio, così come pure sarebbe previsto, allo stralcio (e poi alla distruzione) delle intercettazioni irrilevanti e non pertinenti al reato. Il malcostume, o meglio la continua violazione delle norme, produce nefasti effetti sulla vita delle persone”.

 

 

Per Francesco Caringella, consigliere di Stato e coautore, insieme a Raffaele Cantone, di un libro fresco di stampa, “La corruzione spuzza”, “le intercettazioni sono uno strumento indispensabile di indagine specie per "reati invisibili " e senza testimoni, come la corruzione e i reati associativi. Il vero problema è la divulgazione immediata e indiscriminata dei contenuti, spesso privi di rilevanza penale ma di notevole impatto sul piano personale e intimo. Siccome l'indagine non può essere una pena anticipata, la risposta legislativa deve andare nel senso  di una posticipazione della diffusione a un momento successivo all'inizio del processo, ossia a una fase in cui l'ipotesi accusatoria è sottoposta al vaglio del giudice e sono chiari i fatti di rilievo penale al pari dei dati rilevanti delle intercettazioni”.

 

Per Filippo Dinacci, avvocato e giurista, “il tema non è solo quello di evitare la pubblicazione del contenuto di intercettazioni prima di una certa scadenza processuale ma anche di non consentire la pubblicazione di comunicazioni che non hanno alcuna utilità per l’accertamento dei fatti. In tale prospettiva, autorizzare la pubblicazione dell’atto e del suo contenuto solo dopo la cosiddetta udienza stralcio in cui si individuano i dialoghi pertinenti al processo aiuterebbe a raggiungere il risultato. Da una parte si eviterebbe di diffondere notizie riservate prive di rilevanza processuale e, dall’altra, il testo della comunicazione risulterebbe certificato da un’attività peritale in ordine al suo contenuto”.

 

 

Per Sergio Zeuli, pm antiterrorismo di lungo corso e oggi membro del Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa, “la questione è delicata perché tocca tre aspetti molto importanti: la libertà di informazione, l’interesse al segreto delle indagini, e quindi alla genuinità delle fonti di prova, e infine, ma non da ultimo, la tutela della riservatezza delle persone. Va pure considerato che in base alla normativa vigente quelle pubblicazioni dovrebbero essere già vietate fino al rinvio a giudizio perché si tratta di atti del procedimento. Se la proposta del Foglio si riferisce a un divieto assoluto ed inderogabile di pubblicare le intercettazioni, non sono d'accordo, piuttosto inserirei qualche divieto specifico (ad esempio, su conversazioni intercettate prive di collegamento con i reati per cui si procede). Sono favorevole a un divieto relativo e graduale delle intercettazioni: se l’intercettazione collegata ad un fatto di reato è connessa a un provvedimento cautelare, posto che per dare contezza di quello si deve conoscerne la motivazione, sarei meno severo; viceversa se non vi è provvedimento cautelare e quindi non ci sono gravi indizi di colpevolezza, e dunque l’interpretazione della conversazione può essere equivoca, sarei più severo e applicherei come regola quella del divieto. In altre parole, aumenterei la pubblicabilità delle intercettazioni a seconda della fase del procedimento e degli indizi di reità, due elementi fra loro collegati, ed in evoluzione. È chiaro che a questo, senza bisogno di una legge, potrebbe arrivare già la giurisprudenza”.

 

 

Per l’avvocato Valerio Spigarelli, già presidente dell’Unione delle Camere penali, “la pubblicazione integrale delle intercettazioni è già vietata dall'articolo 114 del Codice, fino al rinvio a giudizio, espressamente, solo che il divieto è assistito da una sanzione blanda, e nessuna procura lo fa rispettare - almeno fino a quando non rileva in una qualche vicenda in cui vi siano contrasti tra gli uffici giudiziari. La sanzione andrebbe legata all’interesse economico alla pubblicazione. Quindi niente galera per i giornalisti ma sanzioni pecuniarie proporzionali alla diffusione a carico degli editori che lucrano sulla illegalità della pubblicazione. Poi sanzioni disciplinari per chi informa violando la legge processuale, cioè per il giornalista, come già vuole l’articolo 115 del Codice, che in pochi conoscono e che prevede la segnalazione disciplinare all’Ordine dei giornalisti da parte del procuratore della Repubblica che verifichi  una pubblicazione arbitraria. Non lo fa nessun procuratore. Non si tratta di censura ma di rispetto dello stato di diritto e della deontologia dei rappresentanti del quarto potere. Quando costoro si trasformano in megafoni dell’accusa vengono meno al loro dovere di controllo del terzo potere”.

 

Per Laura Cossar, tesoriera dell’Ordine degli avvocati di Milano, “vietare che le intercettazioni vengano pubblicate fino al rinvio a giudizio è segno di civiltà e democrazia. Non sussiste alcuna valida ragione per la quale le conversazioni all'esame di una procura debbano essere rese pubbliche prima ancora della chiusura delle indagini; il dovere di riservatezza supera certamente e di gran lunga quello di cronaca”.

 

Di analogo parere è l’avvocato Vinicio Nardo: “La proposta del Foglio è una soluzione tanto estrema quanto necessaria ed urgente. L’ho compreso dopo aver letto la seguente domanda posta da una giornalista di Repubblica al suo ultimo intervistato: "Ammetterà che in questi giorni c'è stata una ricerca ossessiva delle fonti. Non si rischia andando avanti così una sorta di attentato alla stampa?". Piccolo particolare: le "fonti" nel caso di specie hanno commesso reati, e non solo quello di pubblicazione di atti processuali che, come tutti sappiamo, è stato lasciato cadere in disuso dalle procure. Il ricatto morale dell'attentato alla stampa viene spinto all'estremo di additare come antidemocratico pure chi pretende di indagare su reati commessi. Il che è quantomeno curioso, visto che la categoria cui appartiene a pieno titolo la giornalista tende a coincidere con quella dei paladini della legalità”.