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L'autonomia importante, il referendum, il tempo perso

Giorgio Gori

La verità è che una campagna referendaria tutta fatta di iperboli e fake promises, anziché avvicinare l’elettorato, lo ha allontanato

Riusciremo a salvare l’autonomia lombarda dal referendum voluto da Maroni? A tre giorni dal fatidico 22 ottobre il rischio principale mi pare questo: che il referendum voluto a tutti i costi dal governatore lombardo si trasformi, dall’atteso plebiscito che avrebbe dovuto travolgere le resistenze dello stato centralista, in una vistosa pietra d’inciampo sul cammino dell’autonomia lombarda. I sintomi si colgono nelle dichiarazioni dei promotori, per i quali adesso “l’importante è che vincano i sì”, e “qualunque affluenza, dal 20% al 90%” sarà comunque un successo”. Segno che qualche dubbio sul plebiscito comincia ad affiorare. Nasce così un nuovo sport: il salto in alto con l’asticella abbassata, ogni giorno una tacca più sotto. A cui però non tutti prendono parte. Qualche giorno fa, parlando del referendum in Veneto (rispetto al quale i leghisti lombardi non possono certo permettersi significativi scostamenti) il vice di Salvini, Giorgetti, ha chiarito che “un’affluenza sotto al 60% dovrà essere considerata una sconfitta”. Il che fa presagire anche qualche verifica interna alla Lega, quando si conosceranno i risultati.

 

La verità è che una campagna referendaria tutta fatta di iperboli e fake promises, anziché avvicinare l’elettorato, lo ha allontanato. La maggior parte dei lombardi ha perfettamente capito che i 27 miliardi di euro che secondo la Lega il referendum dovrebbe assicurare alla Lombardia sono una simpatica frottola, al pari di quel 75% delle tasse che Maroni s’era impegnato nel 2013 a trattenere in Lombardia se avesse vinto le regionali; e così la promessa dello “statuto speciale”. S’è capito che il referendum non produrrà effetti concreti, e che i 50 milioni del suo costo avrebbero essere spesi certamente meglio. Di qui il clima che si respira, decisamente tiepido, e la necessità – da sinistra, cui concorro per quanto posso – di intensificare gli sforzi per convincere i cittadini a votare. Per evitare appunto che, per paradosso, il referendum diventi la tomba dell’autonomia (già me li vedo i funzionari dei ministeri pronti a stappare…).

  

Non è stato facile in queste settimane fare la campagna per la “vera autonomia”, cioè quella prevista dalla Costituzione, fatta di più responsabilità, di maggiori competenze e di maggiori risorse, sì, ma non certo di miliardi a pioggia. Il Pd e le altre forze del centrosinistra, che in Consiglio regionale avevano con decisione avversato la scelta di indire un referendum del tutto evitabile, si sono attestati su una generica “libertà di voto”. I sindaci e i presidenti delle province hanno invece deciso di schierarsi per il sì. Per una semplice ragione: aldilà delle sacrosante obiezioni sullo strumento, il merito della questione – l’avvio del percorso per il rafforzamento dell’autonomia regionale – è troppo importante per essere lasciato alla propaganda della destra. Gli amministratori badano al sodo e sanno che su questa partita ci giochiamo un pezzo di futuro. Su materie quali ambiente, salute, autonomie locali, lavoro, istruzione tecnica e universitaria, ricerca e innovazione tecnologica, una Lombardia più autonoma può fare meglio e di più, per competere con le regioni europee più avanzate e per rafforzare il proprio ruolo di traino dello sviluppo a vantaggio di tutto il paese. Nessuna messa in discussione dell’unità nazionale, ovviamente, né della solidarietà tra territori, anzi. E’ la stessa idea che sta muovendo la Giunta regionale dell’Emilia-Romagna, che il 3 ottobre ha approvato il pacchetto delle competenze “incrementali” e dato mandato al presidente Bonaccini di negoziarle col governo. La Lombardia stava già lì dieci anni fa, e anzi più avanti, con Linda Lanzillotta ed Enrico Letta incaricati da Prodi di coordinare la trattativa con gli emissari di Formigoni. Finì dopo pochi mesi, con l’arrivo di Berlusconi e dei suoi quattro ministri della Lega, che imposero lo fine di quel processo. Diciamo, per usare un eufemismo, che vien da mangiarsi le mani.

 

Giorgio Gori è sindaco di Bergamo

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