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Maroni, Gori e gli altri. La bella gente di una classe dirigente

Roberto Arditti

La sfida per la Regione mette in campo due belle persone, quasi un miracolo in questa fase di politica un po’ “schifosetta”, per essere gentili

Fermiamoci un attimo a guardarli in faccia, questi due sfidanti per la carica di presidente della regione Lombardia: Roberto Maroni e Giorgio Gori. Ma non occupiamoci del risultato, per una volta (ben sapendo che alla fine prevarrà Maroni, salvo colpi di scena clamorosi). Da un lato c’è il miglior prodotto politico-istituzionale in trent’anni di storia della Lega (nel 1987 Umberto Bossi entra in Parlamento per la prima volta). Ministro più volte con dignità e serietà, capogruppo alla Camera, segretario del partito nella difficile transizione da Bossi a Salvini, militante con colla e manifesti agli esordi: Maroni è senza ombra di dubbio il più longevo, il più solido e anche il più scaltro tra i tanti figliocci politici dell’Umberto. Sta a Roma come a Milano sembrando sempre a suo agio, si siede a un vertice internazionale di governo come a una tavolo per le piadine a una festa di partito: nessuno potrebbe dire quale dei due posti gli piace di più. Insomma uno che ha scelto la politica come mestiere di una vita e ci è riuscito con successo. Certo, Matteo Salvini non lo ama (e si vede benissimo), ma tali e tante sono le medaglie al suo petto che sarà difficile scalzarlo senza il suo consenso. Poi c’è Giorgio Gori, con la sua brillante e rigogliosa storia di giornalista (pochi ricordano il suo esordio a Radio Bergamo, direttore Vittorio Feltri), di manager, di creativo, di imprenditore. Gori accumula successi senza tregua, si dimostra capace di convivere in modo impeccabile con gente di varia estrazione e articolata umanità (ad esempio Silvio Berlusconi e Carlo Freccero nello stesso momento), agisce per due decenni almeno come uno dei massimi protagonisti del nostro sistema televisivo. Poi si reinventa in versione politica, con ruolo decisivo prima nella costruzione della leadership di Matteo Renzi (con il quale a un certo punto litiga, ma poi trovano modo di fare pace) e poi nella attuale versione di sindaco della sua città, ruolo interpretato bene, con visione, concretezza e abilità. Insomma un gran borghese lombardo, di quelli di cui vantarsi alla cena di Natale in famiglia (e anche al bar).

 

La sfida dunque per la regione mette in campo due belle persone, quasi un miracolo in questa fase di politica un po’ “schifosetta”, per essere gentili.

 

Forse però questa constatazione ci permette di allargare il discorso. Guardiamo un momento alla sfida del 2016 per la carica di sindaco di Milano. Vince Beppe Sala, che si reinventa dopo la burrascosa ma vincente galoppata dell’Expo, rigenerando una carriera tutta privata (Pirelli, Telecom) in una seconda fase della sua vita con fascia tricolore. Vince in sequenza le primarie per la selezione del candidato (molti a sinistra speravano il contrario), il primo e il secondo turno delle elezioni acquisendo sicurezza e scioltezza mese dopo mese: chi lo sente parlare in pubblico oggi vede un’altra persona, anche semplicemente tornando indietro di un paio d’anni. Perde Stefano Parisi, come sappiamo. Ma possiamo dire con certezza assoluta che avrebbe fatto il sindaco con grande dignità e risultati positivi, forte com’è di una bella storia di uomo delle istituzioni al massimo livello ma anche di manager e imprenditore di spessore facilmente misurabile.

 

Cosa vuol dire tutto ciò? Vuol dire che a Milano e in Lombardia c’è ancora della bella gente che si batte per i posti chiave, segno di una città e di una regione che hanno consapevolezza del proprio ruolo e del proprio peso.

 

Milano, che ha avuto una Moratti e un Pisapia prima di Sala. Due cognomi pesanti e non solo in città (lontani anni luce per storie personali), due figure che erano già protagoniste prima di diventare sindaco, segno di una tradizione meneghina che chiama a Palazzo Marino solo giocatori di serie A. Letizia Moratti che porta l’Expo a Milano, Giuliano Pisapia che interpreta egregiamente la Milano dei diritti e delle libertà: due persone che se le incontri per strada vai a stringer loro la mano, altro che cambiare marciapiede.

 

Il discorso vale, tutto sommato, anche per la Lombardia. Già, perché Roberto Formigoni è stato un grande presidente, soprattutto per i primi due mandati. Ha solo sbagliato, dopo dieci anni di Pirellone, accettando di diventare il “Celeste”, senza capire in tempo che dalla cariche istituzionali ci si allontana serenamente dopo un po’, prima che qualcosa da fuori te lo imponga (una sconfitta o un inchiesta, poco importa).

 

Palazzo Marino, Palazzo Lombardia, belli gli uffici, bella la gente. Di questi tempi è proprio tanta roba.

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