Foto di LaPresse/Claudio furlan

Un secolo di cinesi a Milano

Chiara Sirianni

Un libro storico a fumetti (e una mostra al Mudec) raccontano perché Milano è una Cina vicina

Era il 1926 quando i cinesi arrivarono a Milano. Ognuno aveva una valigetta e portava, appese all’avambraccio, una serie di collane. Non ci volle molto perché fossero circondati da capannelli di sciure che osservavano le perle, le soppesavano, domandavano invano qualche indicazione: “Sembrano vere, quanto costano? Da dove vengono?”. Loro sorridevano e rispondevano, invariabilmente: “Solo trenta lire”. Le cronache cittadine dell’epoca parlarono di “un’invasione”. Alcuni vivevano già in via Canonica, la Chinatown prima di Chinatown. Furono portati al commissariato di Piazza Castello, con l’obiettivo di allontanare dal Regno questi “soggetti indesiderati”. Ma loro non si arresero: fecero arrivare in Italia amici e fratelli e passarono alla vendita di cravatte. A distanza di un secolo, il quartiere di Porta Volta è ancora il punto di riferimento per i cinesi in Italia, oltre che lo scenario di tutta la loro epopea. Che passa da Mario Tschang, fondatore della ditta Osama, ad Anna Chen, la prima donna cinese regolarmente immigrata in Italia. E gli eredi di quei pionieri, arrivati via nave giovanissimi, dalla regione del Zhejiang, cent’anni dopo raccontano la loro storia. Anche di quando venivano chiamati “occhi di triglia”.

 

Chinamen, un secolo di cinesi a Milano di Matteo Demonte e Ciaja Rocchi (Ed. BeccoGiallo) è un saggio di taglio etnografico, che utilizza il linguaggio dei fumetti per dimostrare come parlare di cinesi in Italia significhi raccontare di storie di casa nostra. I due sono videomaker e già autori della graphic novel Primavere e autunni (Beccogiallo, 2015) basata sulla vicenda di Wu Li Shan, nonno di Demonte, immigrato della prima ora. Con questo progetto chiudono un cerchio. “Quando è stato pubblicato il libro sulla vita di mio nonno – spiega Demonte – si è aperto un varco. Dopo aver cercato in tutti i modi di italianizzarsi, lasciando i ricordi in un baule in soffitta, la comunità cinese ha scelto di aprire quelle scatole e quegli armadi e di condividere le loro storie con noi”. Il merito principale del lavoro (che è anche un cartone animato, e un’omonima mostra al Mudec fino al 17 aprile) è quello di ri-colonizzare l’immaginario milanese, con colori seppiati che ricordano le foto d’epoca, e ritagli di giornale. Come la copia ingiallita del Corriere della Sera che è stata conservata come un tesoro da Attilia Trabucchi per 55 anni. È un paginone titolato: “Ti piace la marosta?”, a firma di Dino Buzzati. Attilia dopo la Guerra aveva sposato Hu Bung Ko, detto Junsà. Con lui nel 1962 fonda la Pagoda, il primo ristorante cinese in città, in via Fabio Filzi. E l’autore del Deserto dei Tartari, che aveva casa proprio in via Canonica, va a provarlo. Buzzati racconta l’atmosfera, il ricco menù, le bacchettine. “I vari gusti erano pressapoco quelli che mi ero immaginato leggendo i libri di Lin Yu-tang. Mi hanno detto che il conto oscillerà, salvo imprevisti, dalle tremila alle tremilacinquecento lire.” La storia continua.

Di più su questi argomenti: