illustrazione di Vincino

Si può essere ottimisti sull'ottimismo? Ragioni della pazza festa fogliante

Claudio Cerasa

In un contesto dominato dall’istinto suicida del drammaticamente corretto, la lotta contro il declinismo è la battaglia chiave della democrazia

Arrivati a questo punto, arrivati al giorno della festa fogliante, al giorno della festa dell’ottimismo, prima di cominciare la giornata vale la pena fermarsi un attimo, prendere fiato e farsi una domanda preliminare, forse un pochino pessimista: ma sull’ottimismo, oggi, c’è da essere ottimisti? Da molti punti di vista, di questi tempi, per essere ottimisti sull’ottimismo bisogna essere effettivamente molto ottimisti. Il pessimismo – come vediamo ogni giorno quando ogni notizia diventa “un caso”, quando ogni dibattito diventa “un allarme”, quando ogni problema diventa “un’emergenza” – è ormai diventato un collante identitario della nostra contemporaneità, oltre che un’industria culturale di discreto successo. E gli istinti declinisti, giorno dopo giorno, hanno creato una realtà parallela, una gigantesca bolla mediatica dove il mondo percepito conta infinitamente di più di quello reale e dove le uniche notizie che hanno una loro dignità sono quelle che raccontano qualcosa che semplicemente non funziona.

 

In questo contesto, in un contesto cioè dominato dall’istinto suicida del drammaticamente corretto, le uniche verità considerate tali sono quelle che partono dal presupposto che il mondo non funziona, che l’universo va a rotoli, che si stava meglio quando si stava peggio, e che signora mia una volta qui era tutta campagna, e inevitabilmente queste “verità” tendono a ingrossare ogni giorno un mostro politico e culturale che non ha altro obiettivo se non quello di trasformare il mondo percepito nel mondo reale.

 

 

Se osservata sotto questo punto di vista, se il pessimismo fuori dal mondo viene messo a fuoco come il più grande incubatore mondiale di fake news, si capisce bene che la sfida tra “Upswingers and Downswinger”, come da deliziosa definizione di David Brooks, ovverosia tra chi scommette al rialzo e chi al ribasso, tra chi tende verso l’alto e chi tende verso la catastrofe, è una sfida dove al centro non c’è solo il futuro della nostra economia ma c’è prima di tutto il futuro della nostra democrazia.

 

La ragione per cui la bolla del pessimismo è un pericolo per il mondo in cui viviamo l’ha spiegata bene qualche tempo fa Steven Pinker, famoso scienziato americano, professore di Psicologia all’Università di Harvard, che nel 2015 ha dedicato un libro al tema “The Psychology of Pessimism”. La tesi di Pinker è che, nonostante i progressi della scienza, nonostante i progressi del benessere, nonostante le 250 mila persone che ogni giorno escono da condizioni di estrema povertà, nonostante la percentuali di adulti analfabeti passata dal cinquanta per cento del 1960 al 15 per cento di oggi, nonostante il numero di paesi governati da una democrazia, passato dal 39 per cento del 1960 al 53 per cento dei nostri giorni, nonostante tutto questo, o forse a causa di tutto questo, il mondo di oggi tende in modo naturale al pessimismo perché, dice Pinker, quando le cose vanno bene tendiamo a sottostimare i benefici del mondo in cui viviamo e tendiamo a sottostimare i rischi che correremmo allontanandoci dal mondo che conosciamo.

 

Per capire la ragione per cui la lotta contro il declinismo è un ingrediente essenziale per la difesa della democrazia del benessere l’esempio giusto da mettere a fuoco è quello legato alla battaglia che esiste oggi sul terreno dei vaccini. Se ci si pensa bene, la moltiplicazione del fronte “no vax” matura in un contesto particolare, in cui il benessere eccessivo porta a far dimenticare quali sono le ragioni che hanno permesso la proliferazione di quel benessere e in cui gli effetti devastanti delle battaglie antisistema vengono sottostimati in nome di un principio più grande: la necessità assoluta non di migliorare il mondo in cui ci troviamo (non basta, il mondo è marcio) ma di distruggere il sistema in cui viviamo (e ovviamente anche le élite che lo governano).

 

Da questo punto di vista essere ottimisti, come è evidente, non significa essere stupidi sognatori che descrivono un mondo che non esiste. Significa capire una cosa ovvia: negare il mondo per quello che è non porta a una gioiosa rivoluzione positiva ma porta a essere fuori dal mondo. In tutta Europa, negli ultimi mesi, la bolla del pessimismo, non solo in politica, è stata spesso sgonfiata da un bagno di realismo e ci sarebbe da essere ottimisti anche a casa nostra se non fosse per un piccolo dettaglio che non sarà sfuggito a molti. E’ possibile essere ottimisti, nella lotta contro il pessimismo, se i primi complici del declinismo sono quelle élite che dovrebbero proteggerci dall’industria dello sfascio? Prima di parlare di ottimismo forse conviene ripartire da qui.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.