Il Consiglio di stato (84 consiglieri e 21 presidenti che guidano una macchina con altre 324 persone) ha sede nelle sale di Palazzo Spada

Un popolo di controllori

Stefano Cingolani
Tutte insieme le Authority hanno 2.300 dipendenti e costato oltre 600 milioni l'anno. A pagare non è sempre lo stato. Non c’è solo la Corte dei Conti: vigilano anche il Consiglio di stato, i Tar, l’Antitrust, la Consob e Bankitalia. Una burocrazia fatta apposta per bloccare ogni decisione.

Palazzo Vecchio, Palazzo Chigi, Palazzo Spada: eppure Antonella Manzione non fa la guida turistica. Al contrario, entra ed esce dai palazzi del potere: il potere municipale, il potere esecutivo, il potere di giudicare gli atti del governo. Quando la ex capo dei vigili fiorentini, poi responsabile degli affari giuridici per Matteo Renzi, passerà al Consiglio di stato, come le è stato promesso (per la seconda volta), lascerà anche lei il nocciolo duro dei decisori per ingrossare le fila dei controllori, copiose e aggrovigliate come riccioli barocchi, battendo due record: quello dell’età, perché ha meno dei 55 anni richiesti, e quello del genere, perché solo dieci consiglieri di stato sono di sesso femminile, appena il 9 per cento del totale, la quota più bassa dell’intera magistratura amministrativa e contabile.

 

Non tacchi a spillo, ma scarpe maschili, per lo più nere, lisce e stringate (il mocassino è fuori ordinanza), percorrono i corridoi del palazzo costruito nel 1540 per il cardinale Girolamo Recanati Capodiferro (figlio naturale di Papa Paolo III Farnese, secondo monsignor Angelo Massarelli segretario generale del Concilio di Trento). Consiglieri eccellenti sono stati, tra gli altri, Antonio Catricalà, già presidente dell’Antitrust e al governo con Mario Monti ed Enrico Letta, o Nicolò Pollari, l’ex capo del Sismi, i servizi segreti militari. L’impronta mascolina si sente anche in molte sentenze che hanno fatto notizia. Il 27 luglio il Consiglio ha stabilito in modo “definitivo” che il massaggio shiatsu non è di competenza delle estetiste. Così facendo ha annullato una precedente sentenza del Tar (Tribunale amministrativo regionale) della Liguria. Tra i due organismi c’è una sorta di corsa a rimpiattino, l’uno a smentire o sostenere l’altro, con tanti saluti alla certezza del diritto.

 

Prima di andare in vacanza i consiglieri di stato si sono dati da fare e abbondano le decisioni talvolta sorprendenti sui casi più disparati. Una settimana prima dei massaggi, il Consiglio ha affrontato una questione ben più seria e dirimente: la fecondazione eterologa. Ebbene, ha dato torto alla Regione Lombardia che aveva deciso di farla pagare alle coppie. Questa volta in sintonia con il Tar che aveva già messo in mora la giunta Maroni. La motivazione di fondo è perché verrebbe introdotta una discriminazione tra fecondazione omologa (con gameti della stessa coppia) ed eterologa. Su un punto, però, non è apparso opportuno schierarsi: il canone Rai. Pur sottolineando numerose anomalie, per esempio che il governo non è riuscito a dare una chiara definizione su “cosa debba intendersi per apparecchio televisivo” oggi che la tv la si guarda anche sul telefonino, tuttavia ha deciso di non pronunciarsi. Del resto, la Rai sta nel regno degli intoccabili, meglio che la rogna se la grattino governo e Parlamento.

 

Ma che cos’è il Consiglio di stato? Un tempo era il consilium principis e aveva una funzione politica. L’articolo 100 della Costituzione (lo stesso che regola anche la Corte dei Conti) lo definisce “organo di consulenza giuridico-amministrativa e di tutela della giustizia dell’amministrazione”, in altri termini può nello stesso tempo aiutare a fare le leggi e bacchettarle. Come la Corte dei Conti, è una eredità sabaudo-napoleonica. Amedeo VIII nel 1430 istituì il Consilium nobiscum residens presieduto dallo stesso Duca. Carlo Alberto nel 1831 vi rimise mano e Vittorio Emanuele II lo rese più indipendente creando la carica di presidente, affidata al barone Luigi des Ambrois de Névache, tra gli estensori dello Statuto albertino.

 

Non sempre al vertice ci sono stati personaggi di tale spessore, ma, Regno o Repubblica, la levatura è garantita. Come dimostra anche l’attuale presidente: Alessandro Pajno, palermitano, docente universitario, capo di gabinetto dei ministri Mattarella, Iervolino e Ciampi negli anni Novanta, sottosegretario agli Interni nel secondo governo Prodi dal 2006 al 2008. Naturalmente anche qui ci sono stati incidenti di percorso (accuse di concussione, ricettazione di tesori archeologici, corruzione in atti giudiziari), ma suvvia, dove non esistono pecore nere?

 

Il barone di Névache che tanto si batté per il traforo del Frejus, si sarà rivoltato nelle tomba quando il Consiglio ha dato ragione ai No Tav; i tempi sono cambiati e con essi i costumi. Del resto, quella pronunciata il 18 settembre 2015 è stata scritta dal consigliere Carlo Mosca, già prefetto di Roma (scelto da Veltroni), l’uomo che rifiutò di schedare i bambini rom, consigliere del ministro Annamaria Cancellieri nonché autore di cento saggi su vari rami del diritto, insomma un funzionario al di sopra di ogni sospetto. E non riguarda la linea ad alta velocità in sé e per sé, ma piuttosto il presidio Lupi delle Alpi in val di Susa. Il comune allora guidato da una sindaco pro Tav, Gemma Amprino, lo riteneva illegittimo anche perché fonte di tensione visto che si erano verificati diversi atti di violenza, scontri con la polizia, sabotaggi “a opera di ignoti”. Il Consiglio di stato ha dato ragione invece ai contestatori che avevano fatto appello, contro una precedente decisione del Tar. Per arrivare a sentenza ci sono voluti tre anni, nel frattempo a Susa è stato eletto un sindaco anti Tav, Sandro Plano, considerato troppo morbido dai grillini valligiani.

 

Questione di punti di vista. Ma il Consiglio di stato è autorità indipendente e non schierata, anche se i suoi membri hanno sempre stabilito un rapporto stretto (da esperti, da tecnici, da magistrati) con i governi, quindi con la politica. Come si accede al sancta sanctorum? Metà dei posti vanno “ai consiglieri di tribunale amministrativo regionale che ne facciano domanda e che abbiano almeno quattro anni di effettivo servizio nella qualifica”. Un quarto è destinato a professori universitari ordinari di materie giuridiche, avvocati, magistrati, dirigenti generali delle amministrazioni pubbliche. In tal caso, la nomina spetta al Consiglio dei ministri e il decreto viene firmato dal presidente della Repubblica. E qui la politica è al primo posto. Il resto arriva da un concorso pubblico per titoli ed esami teorico-pratici, al quale possono partecipare i magistrati e i funzionari del Parlamento e dell’amministrazione statale, tutti almeno dirigenti e laureati in Giurisprudenza perché in piazza Capodiferro 13 regna il diritto, non l’economia, la tecnica o la filosofia.

 

Sia pure in forma rovesciata, il Consiglio rimanda alla falsa prospettiva creata da Francesco Borromini proprio nel cortile di palazzo Spada: sembra piccolo, in realtà è molto più grande. Il geniale architetto ha inventato una sequenza di colonne di altezza decrescente e un pavimento che si alza, provocando l'illusione ottica di una galleria lunga 37 metri mentre è di 8 metri; in fondo è stata collocata una scultura che sembra a grandezza naturale, invece è alta solo 60 centimetri. Nelle ampie sole del palazzo ci sono 84 consiglieri (10 fuori ruolo) e 21 presidenti, non molti in apparenza, ma guidano una macchina con altre 324 persone e, soprattutto, sono il vertice di un apparato vasto e spesso contraddittorio di controlli e controllori.

 


La falsa prospettiva creata da Francesco Borromini (immagine di Youtube)


 

L’amico-nemico è il Tar. Ogni regione ha il suo tribunale amministrativo con un presidente e almeno cinque magistrati suddivisi in consiglieri, primi referendari e referendari. Le decisioni vengono prese con l’assenso di tre giudici e possono essere appellabili davanti al Consiglio di stato. Lo scopo è tutelare il cittadino che si sente leso da un qualsiasi atto amministrativo, dunque il Tar diventa il baluardo della libertà individuale, il vendicatore contro lo stato tiranno, il difensore degli oppressi dal castello kafkiano. Previsto dalla Costituzione, è nato solo nel 1971 con la contestazione e con tutte le riforme che hanno dato vita allo stato sociale italiano così come lo conosciamo (le pensioni, il servizio sanitario nazionale, lo Statuto dei lavoratori). E proprio come la maggior parte di quelle riforme, nel corso di questi 45 anni ha subito una metamorfosi, talvolta fino alla transustanziazione. I costi hanno sopraffatto i benefici. Chi doveva essere protetto dalla culla alla tomba è finito vittima di un ingranaggio micidiale, spesso incontrollabile, il cui effetto oggettivo (o talvolta persino voluto) è trasformare la pubblica amministrazione in una foresta pietrificata.

 

Lo stesso effetto è stato provocato da un uso burocratico e predicatorio della Corte dei Conti (lo abbiamo già raccontato nel Foglio del sabato) che ha il benefico compito di controllare come il governo impiega i denari dei cittadini. Vasto programma, avrebbe detto il generale De Gaulle, arduo da realizzare anche per la Ragioneria generale dello stato, l’istituzione che dovrebbe conoscere ogni rivolo nel quale s’incanala la metà del prodotto lordo italiano, 800 miliardi di euro di spesa pubblica corrente e in conto capitale. Un ufficio centrale, nove ispettorati, 14 uffici nei ministeri con portafogli, 103 ragionerie locali. Assorbe circa la metà dei 13 mila dipendenti del ministero dell’Economia. Attraverso questa griglia non dovrebbe passare foglia: i ragionieri sanno, i ministri no e se finiscono in contrasto con la Ragioneria sono guai, come possono testimoniare Giulio Tremonti, Corrado Passera, Elisa Fornero, e persino Fabrizio Saccomanni che alla fine ha nominato ragioniere generale Daniele Franco, suo collaboratore alla Banca d’Italia.

 

Quando nel 1869 il conte Luigi Guglielmo di Cambray Digny, ministro delle Finanze del Regno d’Italia, presentò in Parlamento la legge sulla contabilità dello stato, vi inserì la nascita di un organismo tecnico che rispondesse ai criteri di Cavour: tutta la struttura statale doveva essere organizzata per produrre un buon bilancio, il che vuol dire che le spese autorizzate dallo stato fossero eseguite “con regolarità ed economicità”. Dunque il Ragioniere nasce come cerbero della spesa. Nel 1924 il ministro Alberto De’ Stefani lo trasforma in un controllore della legittimità delle decisioni prese e la Ragioneria diventa un corpo di ispettori. Nel 1978 s’aggiunge la programmazione di bilancio e la fatidica legge finanziaria. Eppure a cominciare da allora il debito pubblico è passato dal 70 per cento al 132 per cento del pil. La Ragioneria lo ha visto, ma è rimasta impotente di fronte alle decisioni politiche.

 

Certo, controllare non è la stessa cosa che prevenire. Ne sa qualcosa la Banca d’Italia alle prese con le conseguenze di una crisi creditizia senza fine. Dalla riforma del 1936 la vigilanza è stata affidata pienamente agli occhiuti ispettori di Palazzo Koch. Ciò non ha impedito crac anche gravi, di origini le più disparate (dalle scorribande di Sindona e Calvi fino alla mala gestio del Banco di Napoli o al groviglio senese del Monte dei Paschi), anche se la Vigilanza di Via Nazionale può vantare una specchiata reputazione internazionale. L’ultimo banchiere regolatore (e anche l’ultimo banchiere a vita) è stato Antonio Fazio, ma è inciampato nel 2005 in una guerra per banche nazionali ed europee (Bnl, Bnp, Banco de Bilbao, AbnAmro, Popolare di Lodi, Antonveneta, Santander, in un crescendo rossiniano).

 


Antonio Fazio (foto LaPresse)


 

Con Mario Draghi governatore s’afferma una concezione più liberista. I nostalgici del controllo amministrativo rimproverano alla banca centrale di aver mollato la presa. L’acquisizione dell’Antonveneta da parte del Montepaschi dimostra che il mercato è spesso il paravento che nasconde la miscela esplosiva di clientelismo e hybris. La Vigilanza ribatte di essere stata talmente vigile da aver scoperchiato lei il calderone a Siena come ad Arezzo con la Banca Etruria o a Ferrara e nel Veneto. Dal 2014 è subentrata l’autorità europea (con il Mvu, Meccanismo di vigilanza unica) che controlla direttamente 129 grandi banche dell’area euro. E’ arrivato anche il bail-in (il salvataggio a carico degli azionisti e di chi possiede obbligazioni), applicato in modo così rigido da spingere il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco a chiedere un passo indietro, o meglio “più equilibrio tra condivisione dei rischi e stabilità”.

 

Le banche centrali nazionali, insomma, sono diventate i terminali di una ragnatela il cui centro è a Francoforte. Una nuova impalcatura tecnocratica s’è aggiunta al corpaccione del vecchio stato amministrativo. E’ successo per molti versi anche con le Authority chiamate così non per vezzo anglofilo, ma perché derivano dal modello statuale anglo-americano che in questo modo si giustappone a quello italiano. La prima è la Consob, istituita per vigilare sul comportamento delle società quotate in Borsa, la più importante per i cittadini è quella che deve tutelare la concorrenza, l’Antitrust (Autorità garante per la concorrenza e il mercato), l’ultima nata è l’Anac, cane da guardia contro la corruzione, in mezzo ce ne sono altre sei: il Garante della privacy, l’Ivass (assicurazioni) confluita nella Banca d’Italia, la Covip (fondi pensione), l’Agcom (telecomunicazioni), l’Autorità dei trasporti, l’Aeeg (energia). Tutte insieme hanno 2.300 dipendenti e costano, secondo le stime, oltre 600 milioni l’anno.

 

A pagare però non è sempre lo stato: poiché si tratta di un servizio che riguarda il buon funzionamento dei mercati, l’onere ricade sulle aziende vigilate, più le multe alcune delle quali sono davvero consistenti (si pensi ai 103 milioni di euro a Telecom e ai 180 milioni a Roche e Novartis comminate dall’Antitrust di Giovanni Pitruzzella). Il problema, dunque, non è tanto il peso sui contribuenti, quanto la loro efficacia, perché il moltiplicarsi degli apparati non aumenta la loro forza e la loro autorità.
Sovrapporre, non sostituire, così lo stato è diventato un patchwork di superfetazioni fatto apposta per bloccare ogni decisione. Più che un Leviatano, un serpente che si morde la coda. La fatidica domanda: chi controlla i controllori? ha una sola risposta: i controlli stessi, una burocrazia che si rispecchia come Narciso nello stagno statalista e viaggia parallela alla politica, anche se spesso ne entra a far parte. Un Narciso che non si autodistrugge, ma al contrario si autogenera. I governi passano, i consiglieri di stato, i magistrati amministrativi, i ragionieri, restano. E resistono. Lo ha scoperto anche Matteo Renzi: così, messa in soffitta la rottamazione è passato all’entrismo, cominciando proprio dal Consiglio di stato.