Donald Trump, a destra, con la figlia prediletta Ivanka e il genero Jared Kushner, un 35enne elegante e silenzioso che guida il conglomerato mediatico che controlla il New York Observer

The big genero

Jared Kushner, marito di Ivanka: da soprammobile di famiglia a eminenza grigia nell’universo di Trump. E’ stato lui a decretare la fine dell’esperienza di Paul Manafort, manager della campagna elettorale, e prima di Corey Lewandowski.

Quando Paul Manafort ha preso ad annaspare, incalzato da ogni parte per i suoi opachi legami di un tempo con autocrati e satrapi, sfiduciato da colleghi vicini e lontani, Donald Trump ha alzato il telefono per chiedere consiglio sul da farsi. Doveva cacciare oppure salvare il suo manager della campagna elettorale, quello assunto giusto alcuni mesi prima per sostituire un funzionario ormai sgradito a troppi nel cerchio magico? L’ultimo a essere interpellato è stato il genero, Jared Kushner, che in quel momento era in vacanza in Croazia assieme alla moglie Ivanka e ai loro tre figli. Kushner ha votato senza esitazione in favore del licenziamento. Due giorni più tardi il giovane era a New York, seduto attorno a un tavolo assieme a Trump, a Manafort e al suo secondo, Rick Gates; c’erano anche Stephen Bannon e Kellyanne Conway, che con l’approvazione del genero il candidato aveva già coinvolto nella campagna elettorale. Con il benestare di Jared, la testa del manager della campagna è rotolata di lì a poco, e la nuova diarchia ha messo le mani sulle operazioni elettorali, inaugurando un’altra fase stilistica. Con Conway, Trump è passato dalle asprezze del candidato “law and order” al “populismo compassionevole”, come da geniale definizione di Rich Lowry.

 

Nell’universo di Trump non si muove nulla senza l’approvazione di Kushner. Era stato sempre lui a decretare la fine dell’esperienza di Corey Lewandowski, il primo manager assunto da Trump dopo un colloquio di pochi minuti nel suo ufficio della Trump Tower. Lewandowski non aveva le credenziali né l’esperienza necessaria per guidare una campagna elettorale per la Casa Bianca, ma Trump non è il tipo che guarda al curriculum per prendere le decisioni. I principi decisionali risiedono nel “gut”, le viscere, sedi di un istinto che è l’unica costante in un uomo d’affari volubile e senza punti di riferimento, e la pancia quella volta gli aveva suggerito di assumere quel 42enne con la faccia spigolosa che prometteva di mordere alle caviglie qualunque avversario si fosse presentato lungo il cammino. Lo aveva fatto perfino contro il consiglio del vecchio amico e consigliere Roger Stone, il “dirty trickster” di Nixon che per decenni è stato dietro a tutte le più losche operazioni repubblicane, guadagnandosi inevitabilmente la stima della famiglia Trump, che con il modus operandi nixoniano era a proprio agio dai tempi in cui s’intrattenevano con l’ex presidente dopo il sermone alla Marble Church di Manhattan.

 

Trump considerava il suo fiuto più importante del giudizio di Stone – che è stato allontanato dalla campagna, mettendosi a esercitare la sua influenza da dietro le quinte – ma non di quello di Kushner. Quando Lewandowski, precipitato nel gorgo della paranoia trumpiana, si è messo a cercare negli angoli più bui del giornalismo informazioni contro Kushner, figlia e genero si sono presentati al cospetto del candidato con un messaggio chiaro: o lui, o noi. Trump ha indicato la porta a Lewandowski. Non aveva aiutato a distendere il clima il dissenso del manager con Hope Hicks, la giovane portavoce di Trump che proveniva dal giro delle relazioni di Ivanka. Hicks aveva lavorato nelle pubbliche relazioni della sua azienda di moda, e Ivanka non aveva affatto apprezzato quella volta in cui i cronisti avevano riportato di un litigio, con urla e strepiti, sulla Fifth Avenue. Kushner, naturalmente, concordava su tutta la linea.

 

Che Ivanka sia la figlia prediletta di Trump è un fatto piuttosto rilevante nella progressiva metamorfosi di Kushner da gradevole soprammobile di famiglia a eminenza grigia nell’universo di Trump. Donald considera la figlia una voce preziosa quando deve prendere decisioni, e più di una volta s’è lasciato scappare che con quel viso e quel corpo la porterebbe volentieri fuori a cena, se soltanto non fosse sua figlia. Il mondo ha preso il commento come l’apoteosi del cattivo gusto, ma per il vecchio playboy cresciuto alla sacra scuola dello Studio 54 era il migliore dei complimenti. Grazie all’intraprendente Ivanka ha preso ad apprezzare il genero, un 35enne silenzioso che indossa abiti di taglio europeo e guida il conglomerato mediatico che controlla il New York Observer, il settimanale più letto dalla comunità del real estate newyorchese. Kushner è contemporaneamente l’opposto e l’identico di Trump. Al contrario del suocero, parla in pubblico soltanto quando è strettamente necessario, evita i giornalisti, non crede al detto, caro a Trump, secondo cui non c’è una vera distinzione fra buona e cattiva pubblicità. Con il fisico segaligno, la cravatta stretta e lo sguardo à la Joseph Gordon-Levitt, non si perde un appuntamento mondano accanto alla moglie, che con il suo sorriso smagliante trasmette quel tocco solare che manca al rabbioso Donald e alla felina Melania.

 

Se Trump è un conglomerato di eccessi e iperboli, un devoto dell’improvvisazione, Jared è l’essenza della moderazione e del calcolo, un uomo di mondo che quando decide di comunicare affida il messaggio alla parola scritta. Anche i suoi collaboratori e amici più stretti giurano che non è semplice afferrare ciò che pensa davvero. Ciò che lo accomuna a Trump è la passione per il potere e il denaro, ambizioni smisurate che entrambi hanno ereditato dai padri. Jared è uno dei quattro figli di Charles Kushner, che contrariamente a Trump non è un nome noto alle casalinghe americane ma al pari del tycoon con il ciuffo è un monumentale attore sulla scena del mercato immobiliare, uomo della periferia del New Jersey entrato sgomitando nella cerchia dei costruttori di Manhattan. I nonni di Jared erano sopravvissuti all’Olocausto che dalla Bielorussia si sono rifugiati in America. Lui ha lavorato come carpentiere prima di fondare la sua piccola impresa di costruzioni.

 

Nel 1985 la compagnia di Charles, con sede a Florham Park, possedeva 4.000 appartamenti nel New Jersey, e nel 2007 il figlio ha comprato la singola palazzina più costosa di Manhattan, al numero 666 della Fifth Avenue, per 1,8 miliardi di dollari. Così il giovane Kushner h completato il parallelo con il suocero, diventando il primo membro della famiglia di immobiliarsiti ad avventurarsi nella giungla di Manhattan, il mercato più competitivo del mondo, dominato da una tribù di dinastie della “old money”. Anche il padre di Donald, Fred, aveva avuto un enorme successo nel settore immobiliare, ma non aveva mai avuto il coraggio di passare dalle case popolari di Brooklyn e del Queens agli iconici grattacieli di Manhattan. Donald ha una particolare predilezione per quelli che, come lui, portano le ambizioni che hanno ereditato a un livello superiore.

 

Jared è stato educato in un’esclusiva scuola ebraica di Paramus, nel New Jersey, e poi si è laureato in sociologia ad Harvard. I maligni – o forse i realisti – fanno notare che il suo rendimento scolastico non era proprio da Ivy League, ma la donazione da due milioni e mezzo di dollari che il padre ha fatto alla prestigiosa istituzione del Massachusetts ha agevolato l’ammissione di Jared e del fratello più giovane, Joshua. Nei decenni la famiglia ha staccato molti assegni a favore del partito democratico, in particolare all’indirizzo del governatore Jim McGreevey, che ha finito anzitempo il suo mandato fra scandali e inchieste per favoreggiamento. Charles è stato anche condannato a due anni di carcere per evasione fiscale, contributi elettorali illegali e inquinamento delle prove. Fra le altre cose, aveva tentato di filmare il cognato a letto con una prostituta in modo da ricattare la sorella, un po’ troppo incline a discutere di certi affari di famiglia. Non sono operazioni inconsuete per chi naviga in certe acque: ciò che è singolare, piuttosto, è che il procuratore che ha indagato Kushner con fare da segugio è Chris Christie, uno degli alleati di ferro di Trump. Il genero del candidato non si è mai allontanato dal business di famiglia, e anzi ha preso le redini della compagnia quando il padre era inguaiato con la giustizia, espandendo l’impero dal mattone all’editoria.

 

Sotto la sua guida, ha scritto Vanity Fair, “l’Observer ha perso quasi tutta la sua forza culturale presso l’élite di New York, ma il giornale fa profitti e ha aumentato il traffico, con 6 milioni di visitatori unici al mese, contro 1,3 milioni del 2013”. All’inizio della campagna Trump ha usato Kushner innanzitutto come portale d’accesso al mondo ebraico, presso il quale il candidato non gode di buona fama: da generazione serpeggiano voci sulle tendenze antisemite della famiglia, originaria della Germania. Quando si sono sposati, Ivanka si è convertita all’ebraismo, sigillando un patto famigliare con un mondo che sarebbe stato difficilmente accessibile per Donald. Kushner ha contribuito a scrivere il discorso che Trump ha tenuto alla conferenza nazionale dell’Aipac, la più potente lobby israeliana in America, convincendolo addirittura a leggere dal teleprompter, in un momento in cui i messaggi a braccio erano la norma, per distinguersi dai politici “all talk, no action”.

 

A un certo punto l’ambasciatore israeliano, Ron Dremer, si è presentato nell’ufficio di Kushner per passare messaggi indirizzati al candidato repubblicano, elevando de facto un rampollo dell’establishment immobiliare a ufficioso veicolo diplomatico, stracciando in un istante tutti i protocolli e i rituali che governano quel mondo. Trump gli ha anche affidato il compito di organizzare un viaggio in Israele, per ribadire la sua vicinanza alla comunità ebraica, e l’operazione sarebbe andata in porto se soltanto Benjamin Netanyahu non avesse criticato Trump per la sua promessa di chiudere le frontiere americane per i cittadini musulmani. Si dice che quella volta Jared abbia fatto capire, con la decisione che è concessa a un genero, quanto l’avesse fatta grossa. Sull’Observer ha scritto di suo pugno un’appassionata difesa di Trump dalle accuse di antisemtismo, con un incipit che più chiaro non si potrebbe: “Mio suocero non è un antisemita”. Ha raccontato con tale dovizia di particolari la storia dei suoi nonni sfuggiti alla persecuzione nazista fra atroci privazioni e sofferenze, che un cugino si è lamentato per quello che è stata interpretato come un indebito sfruttamento politico di una vicenda privata.

 

Nel tempo il suo ruolo nella campagna elettorale si è esteso enormemente, pur non essendo mai formalizzato, come esplicitamente richiesto da Kushner. Bisogna massaggiare Rupert Murdoch per ricomporre la relazione con Fox News? Chiedere a Kushner. C’è da chiedere consiglio a Kissinger per comporre il discorso sulla politica estera? Se ne occupa Kushner. Chi guida la delegazione al Congresso per negoziare con lo speaker Paul Ryan un’agenda comune? Kushner. Chi stana con il suo charme gli sparuti finanziatori di Hollywood che vogliono sostenere il candidato repubblicano? Sempre Kushner. A chi spetta l’ultima parola sul licenziamento del consigliere più importante della campagna elettorale? Già, Kushner.
Qualche mese fa, dopo l’ennesima vittoria durante le primarie, Trump ha elogiato pubblicamente le qualità di un uomo che compare sempre negli affreschi di famiglia ma non parla mai: “Onestamente, Jared è un immobiliarista di grande successo, ma penso che ami più la politica del settore immobiliare. Il fatto è che è anche molto bravo in politica”. Il capolavoro nell’esercizio dell’influenza politica, il genero lo ha fatto quando Trump ha scelto il candidato alla vicepresidenza.

 

L’istinto, ultimo tribunale della coscienza politica di Trump, suggeriva di scegliere Christie, uomo di esperienza nonché prima fra gli esponenti dell’establishment a sostenere il candidato antisistema. A Kushner, però, l’ex governatore del New Jersey non piaceva, un po’ per le succitate disavventure giudiziarie in cui è incorso il padre, un po’ perché il genero sta lavorando con metodo per dare una patina di moderazione e presentabilità a un candidato smodato. Per Kushner serviva un compagno di ticket più rassicurante, in grado di modificare il messaggio di Trump su alcune questioni fondamentali come l’immigrazione, dove ora sta ritrattando la promessa di rimpatriare gli 11 milioni di clanedestini che vivono negli Stati Uniti. Kushner, insomma, voleva uno come Mike Pence, un governatore pragmatico, sobrio nello stile e nel linguaggio, in grado di federare con la sua moderazione diverse anime di un partito ferito e sfilacciato.

 

Il genero è riuscito non soltanto a governare gli istinti del suocero e a respingere l’assalto di Christie (che in quanto vittima sacrificale dell’establishment si aspettava un trattamento di riguardo) ma si è anche fatto garantire da Trump che sarà lui a guidare il team che si occuperò della transizione nei posti di governo in caso di una vittoria a novembre. Da quel momento, Christie è scivolato sempre più ai margini della scena elettorale, relegato ai ruoli minori e marginalizzato nei processi decisionali che il candidato mantiene all’interno dei confini del clan. Senza fare troppo rumore, Jared è diventato la stella più brillante nel cielo della famiglia Trump.

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