Giovanni Zonin. A soli 29 anni, succede allo zio alla guida dell’azienda di famiglia, che oggi fattura 186 milioni di euro

Il gattopardo del nord

Stefano Cingolani
Gianni Zonin, il crac della Banca di Vicenza e un modello di sviluppo in frantumi. La ramazza di Penati. Tutti a casa i vertici: il 7 luglio Quaestio, la finanziaria che gestisce il fondo Atlante, proporrà il nuovo consiglio con nomi indipendenti.

Si sono difesi fino all’ultimo i gattopardi vicentini. Ma adesso per loro non c’è più scampo. Tutti a casa e senza le sontuose buonuscite concesse a Gianni Zonin e agli amministratori che hanno provocato il crac. Alessandro Penati non va d’accordo con il principe di Salina. Quaestio, la finanziaria diretta dall’economista milanese che gestisce il fondo Atlante, proprietario del 99 per cento del capitale della Banca Popolare di Vicenza, all’assemblea del 7 luglio proporrà un nuovo consiglio con nomi indipendenti. Alla presidenza Gianni Mion, il manager che ha costruito il nuovo volto del gruppo Benetton; vicepresidente Salvatore Bragantini, già commissario Consob; amministratore delegato resta Francesco Iorio, mandato lo scorso anno per gestire l’uscita di Gianni Zonin.

 

I nuovi vertici avvieranno un’azione di responsabilità contro chi ha provocato un dissesto da sei miliardi di euro. Proprio quel che avevano escluso il 26 marzo scorso, nel disperato tentativo di cambiare tutto per non cambiare niente, i soci eccellenti: la Cattolica assicurazioni, le Generali, Ferrarini, il re dei salumi locali, Zigliotto della Confindustria vicentina (uscito prima del crac), la Fondazione Roi (ha investito nella banca 29 milioni che oggi valgono un decimo), la Fondazione Cassa di Prato e persino Stefano Dolcetta della Fiamm (accumulatori) il quale aveva preso la presidenza. Il tentativo di andare in Borsa è fallito, nonostante la garanzia di Unicredit, un flop costato il posto a Federico Ghizzoni, l’amministratore delegato della grande banca milanese. Il mercato ha rifiutato la BPV del falso cambiamento. Adesso Atlante porterà sulle spalle il fardello e intanto imbraccia la ramazza consapevole che la pulizia sarà difficile perché si tratta di entrare nella complessa ragnatela tessuta da “paron Zonin”. Ogni lettura sbirresca della storia, anche di questa storia, è fuorviante. Non ci sono da una parte i banksters e dall’altra candide pecorelle: la legittima ira di chi oggi ha perso il proprio capitale andrebbe bilanciata con le gioie di chi brindava in mezzo alla tempesta. Perché a Vicenza è crollato il paradigma che ha fatto grande, robusto, ricco quel territorio finché è durato il carnevale.

 

Giancarlo Ferretto, proprietario della Armes (sistemi di imballaggio), già presidente della Confindustria veneta e vicepresidente della BPV, non si nasconde dietro un dito: “Se il nord-est ha retto, lo si deve anche alle banche popolari le quali, mentre le altre chiudevano i rubinetti, hanno continuato a erogare credito. Ma distribuivano utili che di fatto non avevano, incrementavano le azioni senza che ci fosse un corrispondente effettivo”. L’autodafé si spinge più in là: “Noi risparmiatori abbiamo sbagliato, le abbiamo considerate la mucca da mungere. Ogni anno distribuivano i dividendi, ci mettevano lì la monetina e aumentava il valore delle azioni. Io per primo ho fatto questo errore. Dovevamo capirlo: mentre i titoli delle banche quotate in borsa scendevano, quelli della BPV o di Veneto banca continuavano a crescere. Eravamo come drogati. Teniamo in piedi il territorio, ci ripetevano, siamo un sistema protetto”.

 

Al centro di questo sistema si era collocato Giovanni Zonin, personaggio chiave nella Vicenza dell’ultimo quarto di secolo. “Troppo facile adesso dargli la croce addosso”, dice Ferretto che pure ha sfidato il “vignaiolo prestato alla finanza”. E affonda: “C’è stata un’omertà, un silenzio, un’acquiescenza. Ci sono molte responsabilità e quelle più grandi le ha la Banca d’Italia”. E’ così? La vigilanza di Via Nazionale è sotto il tiro incrociato. Per i difensori dei piccoli soci-debitori, non si è mossa con la dovuta fermezza. Per Luca Zaia, il presidente leghista della regione Veneto, c’è stato al contrario un “eccesso di zelo”, perché insieme al governo “ha preso le banche e le ha gettate sul mercato”. A Via Nazionale, come vedremo, si difendono inanellando i fatti.
Intanto dal buen ritiro (forse la sua villa in Friuli a Terzo d’Aquileia), Zonin minaccia querele, anche se vuole apparire come un pensionato. Dal marzo scorso il potere è passato ai figli Domenico (presidente al posto del padre), Francesco (vice) e Michele che fa l’avvocato, più la moglie Silvana Zuffellato; il pacchetto azionario è suddiviso tra i membri della famiglia direttamente o attraverso alcune società veicolo. Possibile che l’eroe di un tempo sia diventato il traditore di oggi?

 

Giovanni detto Gianni, classe 1938, preso il diploma d’enologo a Conegliano e una laurea in Giurisprudenza, nel 1967 a soli 29 anni succede allo zio Domenico alla guida dell’azienda di famiglia, trasformata in società per azioni. Allora la Zonin imbottigliava il vino comprato dai produttori e per compiere un salto di qualità era necessario uscire dalla provincia. Il primo balzo avviene nel 1970 con l’acquisto della tenuta di Ca’ Bolani in Friuli; seguiranno San Gimignano, la Maremma, il Piemonte, l’Oltrepò pavese. Poi il grande passo verso i sontuosi grappoli dell’area mediterranea con la Masseria Altemura nel Salento e il Feudo Principi di Butera in Sicilia tra il 1997 e il 2000, “acquistati con mezzi propri”, precisa l’azienda vinicola. L’Italia non basta e arriva anche il sogno americano. Nel 1976, Zonin pianta le viti in Virginia, Barboursville Vineyards, impresa già fallita ai tempi di Thomas Jefferson e mai più tentata dai primi dell’800. La Casa Vinicola Zonin fattura oggi 186 milioni di euro, in un’azienda rimasta a conduzione familiare. La popolare vicentina gli spalanca le porte quando è già nel club dei grandi produttori di vino e si è affermato come imprenditore coraggioso. Diventare soci significava entrare nel giro esclusivo di chi conta davvero, quindi era sempre stato molto difficile. Nata nel 1866 per servire il popolo, la BPV in realtà serviva la classe dirigente locale. Finché il capitale non si è aperto anche ai dipendenti creando così un “parco buoi” manovrabile, visto che le carriere interne sono strettamente legate alla sorte dei vertici. E’ il lato oscuro della democratizzazione, quella deriva tirannico-demagogica analizzata già dai filosofi greci.

 

Quando Zonin prende il timone nel 1996, l’istituto di credito contava 150 sportelli e poco più di 20 mila azionisti. Adesso le filiali sono 650 e gli azionisti oltre 110 mila. La sua prima mossa è rifiutare le nozze già apparecchiate con la banca di Padova. Due anni dopo, insieme all’Ina e allo spagnolo Banco de Bilbao, compra una quota della Bnl appena privatizzata. Frutterà lauti guadagni, ma anche un processo per complicità nella scalata lanciata nel 2005 dall’Unipol di Giovanni Consorte alla banca romana. Zonin verrà assolto, e finora nessuna delle numerose indagini giudiziarie contro di lui si è mai conclusa con una condanna. Nel 2002 la Cassa di Prato, in grave difficoltà, viene salvata dalla BPV. Nel frattempo, c’è lo sbarco in Sicilia, dove Zonin comprava, come abbiamo visto, poderi importanti. Nel 1998 la Popolare di Vicenza cerca di acquisire il polo creditizio nato dalla fusione tra il Banco di Sicilia e la Sicilcassa. L’operazione, in cordata con altri soci, non riesce perché prevale la Banca di Roma. Nel 2000 arriva la Banca Nuova con cento sportelli che aumentano con la Banca del Popolo. E’ l’alternativa alla “colonizzazione romana” e attira l’interesse del mondo politico a cominciare da Totò Cuffaro che presiede la regione dal 2001 al 2008. Perché ogni banca è il cuore della ragnatela che collega tutti i gangli del potere.

 

In politica Zonin ha seguito l’onda, come i suoi pari: è stato vicino ai democristiani, anzi ai dorotei per l’esattezza, poi berlusconiano, ma senza trascurare la Lega (al potere in Veneto). Tuttavia ha saputo essere trasversale. Vicenza è finita in mano al centro sinistra, anche se guidato da un democristiano d’antan come Achille Variati, oggi renziano, entrato da poco anche nel consiglio di amministrazione della Cassa depositi e prestiti. Il salotto buono e colto è la Fondazione Roi creata nel 1988 dal marchese Giuseppe Roi, pronipote di Antonio Fogazzaro, e dotata di un vasto patrimonio soprattutto immobiliare. Socio influente della BPV, quando muore, nel 2009, il marchese lascia alla banca la gestione dei suoi beni. Così Zonin diventa presidente della fondazione, carica che non ha ancora lasciato.

 

I primi dubbi sulla irresistibile ascesa vengono nel 2001. Gli ispettori della Banca d’Italia trovano “poco oggettivo” il valore delle azioni (44 euro). Ci mette il becco anche la magistratura che avvia un’indagine per falso in bilancio, ma il procuratore capo Antonio Fojadelli archivia il tutto. Un tentativo di riaprire il caso finisce con il “non luogo a procedere”. Affonda nel nulla anche l’accusa lanciata dall’Adusbef di “metodi estorsivi per diventare azionisti” archiviata nel 2009 perché “non si ravvisano credibili ipotesi di reato”. Intanto, scoppia la grande crisi finanziaria.

 

Il 2007 è un anno che fa da cerniera. L’Antitrust guidato da Antonio Catricalà dice no all’ingresso nel patto di sindacato di Mediobanca per incompatibilità visto che la banca guidata da Zonin è azionista della Cattolica Assicurazioni e della Nordest Merchant (insieme ai Benetton). Sarebbe stato il coronamento del grande sogno, invece rappresenta il punto di svolta negativo. In quell’anno si consuma anche la rottura con un socio di rilievo come Nicola Amenduni, il gran capo delle acciaierie Valbruna, per un conflitto sulle strategie e sul direttore generale.

 

Passano pochi mesi e tornano gli uomini della vigilanza per contestare alcune operazioni in derivati perché nel frattempo si era acceso il semaforo rosso sui contratti ad alto rischio nascosti nei bilanci delle banche, dei comuni, del Tesoro persino. Nel 2012 nuove indagini, mentre nell’anno successivo vengono effettuati diversi interventi (con lettere e nel corso di incontri) per richiamare la banca al rispetto dei limiti previsti all’epoca per il riacquisto delle azioni proprie e “per porre all’attenzione l’esigenza di non ingenerare nei soci aspettative di sicura e pronta liquidabilità del titolo azionario o di garanzia di un rendimento minimo dell’azione”, come scrive la Banca d’Italia nella nota tecnica trasmessa alla commissione d’inchiesta del consiglio regionale del Veneto. La lettera è un meticoloso elenco delle cose fatte, fino alla “spinta” per le dimissioni di Zonin e la trasformazione in società per azioni il 3 marzo scorso. Eppure la popolare vicentina era riuscita a superare gli stress test anche se di stretta misura. ”La Banca centrale europea ci ha promosso in Europa fra i primi 13 più importanti gruppi bancari italiani – scriveva orgoglioso Zonin – siamo risultati una banca solida e fortemente patrimonializzata”. Era il 4 dicembre 2014. Solo due mesi dopo la Bce avrebbe avviato un primo accertamento per monitorare il sistema di governo, di gestione e controllo dei rischi, proseguito con una nuova verifica nel mese di marzo. All’assemblea dell’11 aprile 2015, quello stesso presidente che a Natale si felicitava con gli azionisti, propose di ridurre il valore del titolo da 62,50 a 48 euro. Un anno dopo sarebbe arrivato a 6 euro, perdendo in sostanza il 90 per cento.

 

Come aveva fatto la BPV a dribblare gli uomini di Draghi? Lo stratagemma sta nel riscatto con chiusura anticipata di un prestito obbligazionario con scadenza 2018, emesso un anno prima. Dallo stress test, precisa la banca stessa, “emerge una carenza tecnica patrimoniale pari a 223 milioni di euro, più che compensata dalla già deliberata irrevocabile conversione del prestito obbligazionario soft mandatory per 253 milioni di euro”. Con quei 30 milioni di surplus residui il gioco è fatto.
Nonostante ciò si è continuato a parlare della BPV come possibile “aggregatrice” per salvare la Popolare dell’Etruria. Perché mai? Una tesi evocata da più parti è il buon rapporto con la Banca d’Italia grazie alla rete protettiva formata da ex funzionari di palazzo Koch: Gianandrea Falchi, già capo della segreteria quando Mario Draghi era governatore, assunto nel 2013 alle relazioni istituzionali; Mariano Sommella, arrivato fin dal 2008 e Luigi Amore, l’uomo che aveva condotto l’ispezione del 2001. Nel 2011 era stato nominato vicepresidente Andrea Monorchio, l’ex potentissimo direttore generale del Tesoro. Ad essi s’aggiungono magistrati in pensione (tra i quali quel Fojadelli che aveva archiviato l’inchiesta del 2001) e ufficiali della Finanza. Uno schieramento singolare, una batteria di fuoco imponente rimasta alla fine senza cartucce perché in realtà è proprio la Banca centrale a scoperchiare il pentolone magico.

 

L’ispezione del 2014 rivela che la popolare di Vicenza aveva comprato azioni proprie senza chiedere l’autorizzazione e “mette in luce un diverso problema, vale a dire quello delle azioni finanziate”. La BPV non aveva dedotto “per un ammontare cospicuo” dal patrimonio di vigilanza il capitale raccolto a fronte di finanziamenti erogati dalla stessa banca ai sottoscrittori delle sue azioni. Ciò ha provocato un buco di circa un miliardo di euro al quale si aggiunge il deterioramento del portafoglio creditizio, che ha comportato la contabilizzazione di 1,3 miliardi di euro di rettifiche di valore nel bilancio 2015 (+54 per cento rispetto all’anno precedente). Molti soci di prima classe mangiano la foglia e scappano. La fuga dalla nave che affonda comincia proprio nel 2014 e mese dopo mese s’arricchisce di nomi: Giuseppe Stefanel, Renzo Rosso, la banca IBL, le Autostrade del Brennero, Giuseppe Zigliotto, allora presidente della Confindustria vicentina (la terza in Italia per associati), Giovanni Roncato, Luca Marzotto, il cognato di Zonin e consigliere della banca, Roberto Pavan. Come si vede, la BPV era una banca di sistema, di quel sistema. Le indagini hanno portato alla luce anche altri magheggi di personaggi eccellenti, attraverso un fondo a loro dedicato che garantisce guadagni certi se le obbligazioni vengono convertite in azioni. Chi è responsabile di tutto ciò? E chi paga?
Esprimere un giudizio su Zonin e sul suo mondo significa entrare in un labirinto borgesiano. Visionario abbagliato dalla propria hybris o manipolatore in guanti bianchi? Un tempo, l’inchiostro oggi intriso di curaro zampillava nei calici come giovane prosecco per festeggiare “il re del vino”. Chissà se anche il vignaiolo-banchiere, come il Kilpatrick di Borges, “animato da questo minuzioso destino che lo redimeva e che lo perdeva”, arricchirà “con atti e parole improvvisate il testo del giudice”.

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