I buoni postali fruttiferi furono introdotti il 26 dicembre 1924 come forma di finanziamento alternativa ai buoni del Tesoro. Una volta il capitale iniziale poteva persino raddoppiare

Il più buono dei buoni

Stefano Cingolani
E’ il famoso “fruttifero”. Con il quale le Poste pescano allegramente lì dove le banche arrancano. Una carta tutta speciale. Un foglio grande, spesso, che dà un’idea di consistenza e solidità più dello stesso biglietto di banca. Nel tempo ha cambiato la forma, non la sostanza che consiste in tre attributi assolutamente speciali.

Questa non è la storia di un re, ma nemmeno di un ciocco di legno, è la storia di un pezzo di carta. Una carta tutta speciale. Un foglio grande, spesso, che dà un’idea di consistenza e solidità più dello stesso biglietto di banca. Nel tempo ha cambiato la forma, non la sostanza che consiste in tre attributi assolutamente speciali: è garantito senza limite dallo stato, paga imposte inferiori e assicura un rendimento basso, ma crescente. C’era una volta in cui il capitale iniziale poteva persino raddoppiare, oggi si viaggia su percentuali da zero virgola, ma prima o poi i tassi torneranno a salire. In ogni caso, i buoni postali sono sicuri come quelli del Tesoro e forse anche di più. Lo annuncia la pubblicità con la quale le Poste hanno bombardato gli schermi televisivi, con una aggressività e una efficacia che suscita irritazione tra i banchieri i quali non esitano a parlare di concorrenza sleale. Esagerano?

 

I signori del credito hanno i nervi a fior di pelle, il sistema bancario italiano è sotto stress e l’Unione europea ha imposto di applicare il bail-in (il meccanismo di risoluzione delle crisi che fa pagare azionisti e risparmiatori) senza concedere un periodo di assestamento e di transizione. Clausola che non vale per il BancoPosta, “un porto sicuro”, sostengono gli analisti finanziari tra i quali quelli di Equita, la compagnia di investimenti acquistata da Alessandro Profumo. Forse non sarà proprio sleale, ma certo la concorrenza potrebbe essere definita asimmetrica. Perché le Poste agiscono come una banca e una compagnia di assicurazione (attività che rappresentano circa due terzi del suo fatturato) anche se a rigore non sono né l’una né l’altra. L’ufficio postale offre un po’ di tutto, carte prepagate, telefonini, mutui. E qui s’annida una sorpresa perché la tanto bistrattata banca rientra dalla finestra. E che banca, niente meno che la Deutsche Bank, è lei a erogare il prestito per comprare la casa, proprio la DB che non è soltanto una filiale del colosso tedesco, ma ha un ruolo molto ampio e gestisce una fetta considerevole del risparmio nazionale (è la quarta azienda creditizia in Italia). Ciò rende molto meno solido l’argomento di chi vorrebbe vedere le Poste come un’alternativa sistemica alla incertezza bancaria. In realtà, l’universo monetario è circolare, tutto si tiene e tutto cade insieme. La vera novità è quello che in linguaggio tecnico si chiama cross selling, cioè la trasformazione dello sportello in punto vendita a tutto campo.

 


Alessandro Profumo (foto LaPresse)


 

Collocate sul mercato, parzialmente privatizzate, le poste dovrebbero agire sempre più secondo una logica capitalistica e non solo come servizio pubblico o tentacolo dello stato che arriva anche nei meandri più lontani, nei posti più sperduti. I carabinieri, le parrocchie, gli uffici postali (14 mila, ben oltre la media europea, che impiegano 144 mila dipendenti) sono i vasi capillari dell’Italia, nessun altro terminale istituzionale è così ramificato e protettivo. O forse lo era. Quando sono diventato maggiorenne mia nonna mi ha messo in mano dei fogli di carta un po’ sbiaditi, con incisa sulla sinistra l’immagine di Giove e della cornucopia. Mi sembravano cose da piccolo mondo antico, persino un po’ ridicole, roba da redditieri, simulacri precapitalistici, figuriamoci se avevano qualcosa a che fare con la rivoluzione proletaria. E invece mi hanno aiutato a studiare finché non ho avuto l’idea di fare il giornalista. A quei tempi la posta garantiva il raddoppio del capitale in soli cinque anni. Un miracolo? Non proprio. L’inflazione annua era a due cifre percentuali, con punte del 16 per cento nel 1982. Certo, ad averli tenuti si poteva contare su somme davvero importanti anche con investimenti modesti, mille, duemila, cinquemila lire. Ma spesso fare la formica è un lusso.

 

Il buono postale era fruttifero e così veniva chiamato da quando venne introdotto il 26 dicembre 1924 come forma di finanziamento alternativa ai buoni del Tesoro. E’ soggetto alla ritenuta fiscale del 12,50 per cento (circa metà rispetto agli altri prodotti finanziari) e, per valori di rimborso fino a 5.000 euro, esente dall’imposta di bollo. Non è aggravato da commissioni e spese, il rendimento aumenta nel tempo, ma i buoni possono essere rimborsati in qualsiasi momento, in tal caso, viene restituito il capitale investito, maggiorato degli interessi maturati. Ci sono buoni indicizzati all’inflazione, buoni dedicati ai minori e sono anche disponibili piani di risparmio, occorre ovviamente avere un conto corrente o un libretto postale per alimentare i versamenti che possono avere periodicità da mensile ad annuale. Il BancoPosta è dotato di un patrimonio dedicato e di un sistema contabile separato; è regolato da norme specifiche, per esempio è soggetto alla vigilanza della Banca d’Italia, ma non aderisce (e non contribuisce) al Fondo interbancario di tutela dei depositi, in un certo senso è più vicino a una rete di distribuzione perché non può fare prestiti a privati. Il risparmio che raccoglie attraverso i buoni e i libretti finisce alla Cassa depositi e prestiti in cambio di una commissione; il denaro dei correntisti privati è obbligatoriamente investito in titoli governativi dell’area euro, in particolare italiani o, fino a un massimo del 50 per cento, in titoli garantiti dallo stato.

 



 

Sono lontani i tempi della cornucopia, ma anche quelli in cui l’interesse pattuito veniva dimezzato per decreto legge, senza avvertire i sottoscrittori. Oggi, sulla base delle condizioni esposte sul sito di Poste Italiane, il rendimento effettivo annuo lordo offerto dai buoni ordinari (Bfp) alla fine del primo, secondo e terzo anno è pari allo 0,15 per cento, se il titolo è mantenuto sino alla fine del quinquennio si ottiene uno 0,21 per cento annuo, dopo dieci anni è lo 0,45 per cento e alla scadenza dei venti si arriva all’1,06 per cento Nel confrontare questi rendimenti con quelli offerti dai conti di deposito delle banche va ricordato che questi ultimi sono tassati al 26 per cento, mentre per i Btp, che sulle scadenze di medio e lungo termine presentano rendimenti teorici più elevati, il loro valore di rimborso è certo solo alla scadenza, prima di allora il prezzo di mercato è influenzato dall’andamento degli interessi in modo inversamente proporzionale: un aumento dei tassi determina un calo del prezzo, tanto più elevato quanto più lontana è la scadenza. Le brutte sorprese, comunque, non mancano mai, se il gioco dipende dall’imperium dei governi. Accadde nel 1986, quando Bettino Craxi, presidente del Consiglio impegnato a ridurre l’inflazione galoppante, decise unilateralmente, con un decreto ministeriale, di tagliare gli interessi dei buoni trentennali (sono proprio quelli che vanno in scadenza in questo periodo). Così, quando chi li ha conservati religiosamente nel cassetto si è presentato all’ufficio per riscattarli, non ha potuto riscuotere la somma scritta sul retro. Sono cominciati i mugugni, trasformati in aperta protesta. L’onda è salita ed è arrivata fino a Bruxelles grazie alla Lega Nord. Sì, la Lega, quella che mette alla gogna i ciechi burocrati dell’Unione europea adesso ha fatto appello proprio al loro occhiuto controllo.

 

L’eurodeputata Mara Bizzotto, vicesegretaria veneta della Lega, non va troppo per il sottile e non si fa invischiare in distinzioni di lana caprina. “Ci troviamo di fronte a quella che ha tutte le sembianze di una vera e propria truffa commessa dallo Stato ai danni e all’insaputa dei risparmiatori -– denuncia – Di questo decreto, infatti, non è mai stata data alcuna comunicazione personale ai cittadini che, dopo 30 anni di attesa, si sono visti quasi dimezzate le rendite a loro spettanti”. Ma cosa può fare la Ue? "Controllare se la modifica retroattiva dei tassi d’interesse dei Bfp rappresenti una forma di distorsione della libera concorrenza e della trasparenza nel mercato del risparmio e dei prodotti finanziari, e verificare se tale modifica sia compatibile con la normativa comunitaria allora vigente. Non si possono mettere le mani nelle tasche dei risparmiatori cambiando, in corsa e a loro insaputa, le regole del gioco”. Se facciamo la storia dei buoni postali è perché adesso, in pieno Terzo millennio, economia digitale, società liquida o postcapitalista che dir si voglia, tornano di moda, eccome. Servono tantissimo. Servono al Tesoro per girarli a comuni e regioni. Servono alla Cassa depositi e prestiti per salvare aziende decotte, costruire la rete a banda ultralarga e via dicendo. Servono alle Poste perché se no non chiudono il bilancio, nonostante i trasferimenti dello stato per l’attività postale in perenne passivo (la distribuzione della corrispondenza non arriva a due miliardi su 28 di fatturato). Il risparmio postale garantito fa davvero invidia alle banche le quali s’arrabattono per accaparrare depositi che non possono remunerare con tassi d’interesse così bassi e sono in grado di proteggere fino a 100 mila euro.

 


Mara Bizzotto (foto LaPresse)


 

Il mare nel quale i buoni postali nuotano come pesci è quello della provincia e della sua piccola, piccolissima borghesia che rischia di rimanere senza punti di riferimento, senza sportelli, senza credito del territorio con il tramonto delle banche locali. E’ conseguenza della crisi dei distretti molti dei quali sono stati duramente colpiti dalla lunga recessione. Ma è anche frutto di un modo tutto particolare di fare banca e dare credito con l’intreccio inestricabile tra soci e clienti, grazie al quale gli azionisti finanziano se stessi e poi aumentano il capitale con i quattrini prestati loro dalla stessa banca. E’ quel che la Banca d’Italia, in seguito a una lunga serie di ispezioni, ha trovato alla Banca Popolare di Vicenza, alla Veneto Banca o nelle quattro banche popolari commissariate e ora in vendita (Marche, Etruria, Ferrara e Chieti). E’ emerso il modello sul quale si è retta buona parte dell’Italia centrale e del nord est, dove la banca non si limita a raccogliere il risparmio, ma olia tutti gli ingranaggi della macchina, quelli economici, quelli politici, e perfino le gerarchie sociali. La trasformazione in società per azioni, chiesta già dieci anni fa da Mario Draghi, era necessaria e ormai improcrastinabile per migliorare la governance e, in ultima istanza, tutelare il risparmio. Ma ha avuto un effetto deflagrante, per la profondità della crisi e una gestione allegra, dove la relazione fa aggio sulla efficienza, l’amicizia sul merito di credito. Quando la vigilanza ha imposto di mettersi in regola, gli equilibri patrimoniali sono saltati e il castello di carta è crollato.

 

E adesso? E’ cominciata una salutare, ma complessa transizione. Le banche riformate, ricapitalizzate, salvate, vanno ristrutturate. Significa tagliare, chiudere sportelli, ridurre il personale, passare a un uso intenso di internet. E ciò, inutile negarlo, crea uno smarrimento, una incertezza, una sfiducia diffusa, un vuoto nel cuore del sistema locale. Così, mentre la Popolare di Vicenza, Veneto Banca o le altre, attraversano questa fase, molti depositanti, molti risparmiatori, preoccupati, delusi o apertamente scottati s’allontanano. E dove vanno? Vedremo. L’unica cosa certa è che in tv ogni sera vedono che il buono postale offre loro un rifugio. E che alle poste non è mai successo quel che s’è letto a proposito delle banche, in particolare quelle popolari e cooperative. Non ci sono conferme ufficiali che il risparmio postale sia cresciuto a scapito di quello bancario, ma Equita prevede che nei prossimi tre anni la fuga possa ammontare a 30 miliardi di euro. Una stima plausibile? E’ troppo presto per fare cifre e giungere a conclusioni, esiste però il precedente del 2008, l’anno del crac e della Lehman Brothers. Quella volta sì le Poste hanno spiazzato le banche. Si fregano le mani Claudio Costamagna e Fabio Gallia, presidente e amministratore delegato della Cassa depositi e prestiti trasformata nella sua missione e nel suo statuto, sollecitata a intervenire là dove c’è bisogno di un sostegno robusto, un po’ fondo sovrano, un po’ ospedale industriale, un po’ banca di sistema. La raccolta postale ammonta a 250 miliardi. La Cassa non può disporne a suo piacimento, naturalmente. La maggior parte serve a finanziare gli enti locali e non si deve credere che Costamagna possa aprire il rubinetto o stampare moneta. E tuttavia rappresenta una solida piattaforma galleggiante sul mare di debiti pubblici e privati.

 

Con le Poste, nel frattempo, si fa ancor più stretta la fratellanza siamese. Il Tesoro, che possiede il 64 per cento dell’azienda, ha deciso di trasferire il 35 per cento alla Cdp che è fuori dal perimetro del bilancio pubblico. Poi potrebbe tornare sul mercato per collocare una nuova tranche agli investitori privati. In un colpo solo, Pier Carlo Padoan porta a casa 5,6 miliardi, grosso modo il doppio di quel che ha realizzato con la quotazione a Piazza Affari che vengono sottratti dai duemila e duecento miliardi di debito pubblico (una goccia, ma il mare è fatto proprio di tante gocce). Per molti aspetti può essere considerata una partita di giro, un gioco tra dirimpettai (il palazzo della Cdp e quello delle Finanze sono uno accanto all’altro), ma i conti tornano. La Cassa può accedere a nuove disponibilità finanziarie importanti anche per rafforzare un bilancio schiacciato dalla riduzione dei dividendi sulle aziende partecipate, come l’Eni, la Snam, Finmeccanica. Senza dimenticare che banda larga, Ilva e fondo Atlante (al quale partecipano anche le Poste) sono a loro volta altre fonti di spesa.

 


Poste Italiane, cerimonia della campanella a Piazza Affari Milano nel 2015 (foto LaPresse)


 

L’operazione decisa dal governo non è esente da critiche, in particolare perché delinea un intreccio che prefigura conflitto d’interessi, dato che la convenzione per la raccolta del risparmio postale è la seconda fonte di guadagni della Cdp. Bisogna stare molto attenti, inoltre, a non trascinare più o meno indirettamente, i risparmiatori, per lo più piccoli e appartenenti a ceti sociali fragili, in operazioni di vera politica industriale tutt’altro che esenti da pericoli. “Il rischio zero non esiste, bisogna dirlo chiaramente”, ammette Luisa Todini. Lei che ha ereditato un’azienda di costruzioni poi venduta alla Salini, lo sa e fa bene a ricordarlo anche adesso che presiede le Poste, con il BancoPosta e tutti quei preziosi e delicati fogli di carta dei quali abbiamo cercato di raccontare i fasti e le illusioni.

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