Gary Oldman nel film “La talpa”, che Tomas Alfredson ha tratto nel 2011 dall’omonimo classico dello spionaggio di John Le Carré

La casa delle spie

Michele Masneri
Due camere e servizi, ovviamente segreti. E c’è anche un superattico in cristallo nella nuova “Langley de noantri” nel bel mezzo di Roma

Di quanti metri quadri ha bisogno una spia? Due camere e servizi? Ecco, nella fondamentale miniserie televisiva in onda sulla Bbc, “The night manager”, tratta da un romanzo di John Le Carré, protagonista un bellone portiere di notte che si improvvisa spietato spione ai danni di un mercante d’armi impersonato da Hugh Laurie (il dottor House, qui cattivissimo), ma coprotagonista come al solito è la sede, la fatiscente ma operativa sede dei servizi segreti inglesi, River House, sorta di tempio assiro-babilonese sul Tamigi, già protagonista immobiliare anche dell’ultimo 007, “Spectre” in cui invece viene fatta implodere tipo ecomostro.

 

Invece a Roma si prepara un quartier generale nuovo di zecca per gli 007 italici. E’ quasi pronto infatti il palazzone dei Servizi a piazza Dante, deep Esquilino, non lontano dalla stazione, cantiere incessante che trasformerà il maestoso edificio umbertino delle Casse di risparmio postali nell’ufficio unificato di Dis, Aise e Aisi, cioè il Dipartimento delle informazioni per la sicurezza, l’Agenzia informazioni e sicurezza esterna e quella per gli interni: insomma la Trilateral delle spie italiane, per la prima volta riunite sotto un unico tetto: col più grande trasloco di burocrazie ancorché segrete della storia repubblicana. Mille dipendenti almeno, dicono al Foglio ambienti del Dipartimento della sicurezza, nel palazzo eretto nel 1914 dall’architetto Rolland, progettista del teatro-cinema Adriano e papà del grande Luigi Moretti, archistar razionalista immaginifica a chilometri zero che nacque e tutta la vita abitò a via Napoleone III (papà ufficioso, tanto che non gli tramandò il nome).

 


Le Casse di risparmio postali in piazza Dante, Roma (foto vaccarinews)


 

Il palazzo, 11.182 metri quadrati, un dado di cento metri per lato, alto 28 metri, “un monumento della nuova Italia all’operosità e all’avvenire del suo popolo” come disse all’epoca il sottosegretario alle Poste Augusto Battaglieri inaugurandolo, oggi è imbiancato e quasi restaurato, dovrebbe aprire ad agosto (“ma è più probabile all’inizio del nuovo anno”, dicono al Foglio spie qualificate), ha superato le proteste dei vicini per rumori e tremori del suolo, e diffusione di leggende metropolitane visto il committente inquietante e mitologico, i Servizi segreti. Si è detto in particolare che nel sottosuolo siano posti vasti depositi d’armi; falso, però ci sarà un grande parking laddove vi era un famoso rifugio antiaereo durante la Seconda guerra mondiale (di qui le indicazioni “piazza Dante”, in giallo e nero, d’epoca, sparse per tutta la città, quasi come quelle veltroniane di “Auditorium”, visibili secondo alcuni burloni anche sulla Luna).

 

Secondo il giornale "Il cielo sopra Esquilino", espressione della società civile merulana, “gli occhi dei residenti sono abituati a palizzate, strade interdette, viavai di camion e altri mezzi pesanti”. Alcuni sollevano rilievi poi sull’opportunità di piazzare la “Langley de noantri”, come viene soprannominata citando la sede Cia americana, proprio nel mezzo di una piazza del centro, ben visibile da ogni lato grazie anche a una superfetazione di cristallo, un piano attico nuovo di zecca in vetro luminescente, che riflette già i magnifici tramonti esquilini e avrà una visuale celestiale su San Giovanni e i colli fatali, però in tanti si chiedono se vista la cubatura del mammozzone c’era bisogno di aggiungere questo attico sberluccicante. Ma forse tutta questa vetratura simboleggia la nuova trasparenza dei Servizi, per la prima volta riuniti in coabitazione, forse il cristallo darà quel tocco “d’antico e moderno che è la bellezza de Roma”, come diceva Franca Valeri in “Parigi o cara”; però se lo si guarda dalle strette vie dei poeti (Petrarca, Machiavelli, Leopardi, che conducono alla piazza) effettivamente il palazzone segreto pare una Costa Crociere gigante in quelle foto “No grandi navi”, che si vede dagli scorci veneziani e fa un po’ paura.

 

L’attico delle spie è peraltro legittimo – i Servizi trasparenti e cristallini per il loro attico non hanno invocato la sicurezza nazionale, e pur potendo derogare la qualunque non hanno derogato, ma hanno invece collaborato con la Soprintendenza (chissà se derogavano). Adesso la Nave dei Servizi è lì ed è quasi pronta al varo, e a chi obietta che normalmente i Servizi li mettono in luoghi isolati e nascosti, che “c’è un problema oggettivo di sicurezza”, e “piazzano nel cuore della città un obiettivo perfetto”, come dice un esperto della materia, le spie replicano desolate: “Ma mica potevamo andare a Zagarolo”, come dice sempre al Foglio una spia; le nostre sedi sono note, del resto, e in fondo anche il palazzone londinese dell’MI6 è da sempre “il segreto peggio conservato di Londra, noto a ogni tassista o 007 estero”.

 


L'MI6 a Londra


 

E poi questo trasloco permette di cancellare una decina di uffici in giro per Roma, con notevoli risparmi forse anche di traffico (la Nave dei Servizi nuova di zecca è di proprietà di Cassa depositi e prestiti). Dunque un ottimo investimento, come dicono le agenzie immobiliari, e insomma le spie si stringeranno nella nuova sede terrazzatissima e “per amatori”. Di certo ora bisognerà sloggiare però tutta la comunità sorta spontaneamente sotto il palazzone, in un parchetto leggiadro di palme e lecci che funge da bivacco per un’umanità alcolica e variegata. Anche oggi, basta entrare e sotto una targa “Securitalia area video sorvegliata”, in quello che dovrebbe essere il parco più monitorato d’Italia, ecco siringhe in gran quantità e giacigli di volantini Expert; e vuoti di Peroni e Tavernello, mentre al centro della piazza due scivoli per bambini scarabocchiati e vandalizzati; su uno è seduto Joy, trentenne indiano, fa il badante, ci dice “sto aspettando un amico, qui di giorno è sicuro ma poi la sera arrivano i peruviani, quelli sono cattivissimi, bevono, fanno di tutto”. Intanto un altro signore si tira giù le mutande e fa la pipì davanti a me, mentre parlo con Joy.

 

Però intanto ’sta Langley cambia la geografia delle spie romane: il palazzone “non ospiterà funzioni operative”, dunque niente poligoni bensì tanti archivi, dicono sempre le mie amiche spie; e rimarranno alcune sedi, ufficiali e segrete, sparse per la città, che hanno creato soprattutto mitologia e letteratura in questi anni. A partire dal Forte Braschi, al quartiere Trionfale, sede dell’Aise, forte ottocentesco impenetrabile ove allignano varie leggende metropolitane; soprattutto che vi sia un tunnel segreto che porta sotterraneamente fino agli altri palazzi del potere e soprattutto a Civitavecchia; la scoperta, di questo fantomatico tunnel, si ebbe nel 1997, quando – pare – un gruppo di operai scavando verso la Pineta Sacchetti trovò una cavità segreta, da cui scaturirono alcuni uomini armati come i russi ipogei a Villa Ada nel romanzo di Ammaniti “Che la festa cominci”. L’episodio non fu verificato, ma si trascinò in sedi come si dice istituzionali, la polizia disse trattarsi di normali cunicoli che attraversano la città, vecchie fognature. Le Ferrovie dello stato dissero che si trattava della costruenda Alta velocità. Il deputato di An Marco Zacchera non si accontentò, chiese lumi al governo, sostenendo che dallo stesso tunnel uscirono dei carabinieri il giorno del rapimento Moro, vent’anni prima. Il presidente della Camera Luciano Violante ironizzò: “Il tunnel? Utile in caso di traffico”. Non se ne fece più niente, mentre non fu mai verificata nemmeno la leggenda che voleva a Forte Braschi anche un piccolo zoo, con gazzelle e cerbiatti, voluto dagli ufficiali dei Servizi per sentirsi forse meno soli, per fare pet therapy.

 

Del resto ogni spia ha il suo gusto, a partire dall’arredo, che cambia negli anni. Nel 1993, mentre la Prima Repubblica moriva, assai dolcemente, a via Giovanni Lanza, altra sede fondamentale delle nostre spie, ufficio dell’Aisi già Sisde che oggi verrà abbandonata in favore del mammozzone cristallino, scoppiava il caso appunto della “Banda del Sisde”, storia di ruberie molto da commedia all’italiana, con personaggi chiamati “Er cinese” e “La Zarina”, e protagonisti con cognomi ortofrutticoli come Broccoletti, o Finocchi. Maurizio Broccoletti, direttore amministrativo, nella sua villa di Rieti si era fatto fare la “sala hobby” o tavernetta, ricordava Filippo Ceccarelli sulla Stampa negli anni Novanta. La Zarina – un’anziana segretaria, perché le spy story romane difficilmente potrebbero finire sullo schermo in saghe serie e sexy – fu accusata anche d’aver usato fondi riservati per volare in Sudamerica a conoscere la star di una soap opera cui era assai devota. Mentre Michele Finocchi, già capo di gabinetto del Sisde, venne fuori anche nel delitto dell’Olgiata, ville di altra cubatura e standing, anche se poi non c’entrava nulla, perché era amico della contessa assassinata Alberica Filo della Torre, ma del resto avere un amico o un parente nei Servizi a Roma, tra civili e militari e deviati è come avere un conoscente che ha lavorato con Fellini.

 

Spionaggio diffuso, nell’entropia romana, da sempre: mitomanie, leggende, quel negozio di tendaggi sede in realtà del Kgb di fronte a Botteghe Oscure; oggi anche mobilitazioni in chiave anti-Isis: e così ci è capitato di assistere, sotto Natale, a uno strano corso di controspionaggio di base organizzato per tassisti, era stato reclamizzato da una Ecole universitaire internationale, misteriosa srl fiorentina, e dal comitato Difendiamo Roma, capeggiato dal consigliere regionale de La Destra Fabrizio Santori. Era appena avvenuto l’attentato a Parigi e Roma era piombata nella dimensione dell’allarme, e si era andati, un sabato, in un appartamento a San Lorenzo, si era in sedici, tutti tassisti, e un istruttore bresciano misteriosissimo ma che lasciava intendere d’essere naturalmente dei Servizi istruiva i tassinari a notare comportamenti strani, ad apprendere nozioni anti guerriglia, a diventare efficienti sentinelle antiterrorismo. “In caso di esplosione o bomba, i telefonini non andranno, dovrete comunicare col cb, il baracchino, sul canale 35”, avvertiva il misterioso coach. “Dovete tenere l’insegna luminosa sempre accesa, perché sarà da guida tra le polveri dell’esplosione”. Poi insegnava a riconoscere atteggiamenti sospetti, e i tassisti facevano uno stream of consciousness: “Ma certo: quello col cappello africano e un pacco di soldi, salito l’altro giorno”; “quella coppia che salita a Fiumicino fino al centro ha ripreso con le telecamere tutto il paesaggio”. Io ho provato a parlare francese perché ho vissuto quattro anni in Francia, allora si sono messi a parlare proprio arabo stretto”, diceva il tassista della cooperativa Samarcanda. “Io ho fatto il Kosovo” diceva un collega che mostrava di saperla lunga su gas tossici e tecniche di antiguerriglia. “Aho, io ho fatto il Quadraro”, rispondeva una signora tassinara, mostrando l’ironia romana che tutto ingloba, e che forse ci salverà anche dagli attentati.

 

Sgangheratezze forse garanti di un equilibrio, come se la realtà e l’essenza dei nostri Servizi, bonariamente casinara, incidesse sulla realtà, romanizzandola. Golpi seri, anche da parte dei servizi più deviati, non ce ne furono del resto mai; molte deviazioni, e tante aspirazioni, generalmente piccolo borghesi: le nostre spie prendevano la strada del tinello, con angolo cottura. E se oggi si fanno l’attico di vetro decostruttivista, ispirato da qualche Fuksas visto sulle riviste, negli anni Novanta l’archistar dei Servizi, quell’Adolfo Salabé che accompagnava dai tappezzieri Marianna Scalfaro, figlia del presidente della Repubblica, aveva creato un’estetica dei servizi più classica. “Sobrio, elegante, inglese, un po’ datato”, viene definito lo stile di questo architetto che si era laureato a cinquant’anni, in “Premiata ditta servizi segreti”, di Paola Bolaffio e Gaetano Savatteri (Arbor Editore). “Librerie in massello, colori scuri, rossi antichi, drappi ma nessuna pesantezza, tessuti delicati e costosi, tende lunghe fino al pavimento, fratine cinquecentesche, tavoli a lastre di cristallo sorrette da rari capitelli, lumi liberty, colonne in marmo”; era lo stile di Salabé, autore tra l’altro dell’interior decoration del Borgo Paraelios, resort (ma non si diceva ancora così) a Poggio Catino, località poco esotica in provincia di Rieti, dove andavano a villeggiare i nostri 007, alternati a convention di democristiani in estinzione. C’era anche uno spinoff balneare, tanto piaceva lo stile di Salabé, l’inferior decorator delle spie; un “Baja Paraelios” questa volta a Tropea, in Calabria, in convenzione col Sisde “a 120 miloni di lire l’anno”, e dotato di “sale da gioco, bocce, parcheggio interno ed esterno”. Per chi voleva rimanere nei paraggi, a Fiumicino era ormeggiato invece lo yacht “Islamorada”, per piccole crociere da fermi, in dotazione al Sismi, come narrò sempre Ceccarelli.

 

Per chi doveva restare in città, invece, c’era un’altra sede, quella di largo Santa Susanna (che rimarrà, nonostante l’attico), verso via Veneto, oggi ufficio del Dis, in un quartiere ricco di suggestioni; al vicino hotel Excelsior dimorava Licio Gelli a Roma, mentre accanto, a via Barberini 86, nel 1968 ci fu lo strano suicidio del colonnello Renzo Rocca, cassiere dei fondi riservati del Sifar (Servizio informazioni forze armate, le spie italiane sono appassionate di acronimi); il colonnello – era estate – aveva appena comprato prosciutto e melone da portare a casa, quando decise di spararsi o farsi sparare con una Beretta dal manico di madreperla che fu ritrovata tra i prosciutti.

 

E del resto il mistero e lo spionaggio romano pare più adatto, se non ai classici tarallucci e vino, almeno a degli affettati; e il gaddiano commendator Angeloni, sospettato e pedinato nel “Pasticciaccio” dal commissario Ingravallo proprio per certi “presciutti” che si faceva portare da dei garzoni minorili da via Panisperna, è sicuramente figura letteraria più credibile in una spy story romana, rispetto per esempio al protagonista algido del “Night manager” della Bbc impersonato dall’inglese Tom Hiddleston (che si dice in lizza per fare il prossimo James Bond).

 

Intorno a via Veneto, poi, tanti ristoranti amati da una spia romana d’eccezione: l’intelligence capitolina aveva generato infatti un bizzarro personaggio, Federico Umberto d’Amato, per trent’anni il più autorevole funzionario dell’Ufficio affari riservati del ministero dell’Interno; ma soprattutto gastronomo, autore di una storica rubrica di cucina sull’Espresso, e della sua prima guida culinaria. Nel suo libro “Menu e dossier, ricordi e divagazioni di un poliziotto gastronomo”, D’Amato spiega la sua poetica: “E’ evidente come la buona tavola sia uno strumento efficace per queste attività spionistiche”. “Gli agenti informativi sono i migliori clienti dei ristoranti perché sono habitués con frequenti presenze, conoscono la buona cucina e prescelgono i cibi e i vini più costosi (tanto, paga il servizio)”, scrive lo 007. Segue graduatoria tra i migliori commensali (al primo posto gli agenti belgi, mentre i russi si impadroniscono subito dei segreti locali “altrimenti non mi spiegherei la sicurezza con cui un funzionario del Kgb, da poco arrivato a Roma, ordinava dinanzi a me carciofi alla giudia”.

 

D’Amato ricorda soprattutto un pranzo, un pranzo di Babette per spie, una riunione dei servizi di tutta Europa organizzata in un ristorante sul Lungotevere: “Sui tavoli feci disporre nove grandi zuppiere di pasta” in bianco, che venivano continuamente riempite, e poi su un altro tavolo “le salsiere contenenti salsa di pomodoro e basilico, ragù napoletano e bolognese, pesto genovese, salsa di vongole veraci, sugo di lepre, arrabbiata”, “ognuno si serviva a gusto suo, combinando salse e paste secondo le ricette ortodosse o, trattandosi di stranieri, secondo accostamenti stravaganti”. “Un pranzo che è ancora ricordato negli annali dei Servizi speciali” scriveva la spia gourmand. Un mondo di pastasciuttari, quello dei Servizi romani, forse: però intanto attentati pochissimi; e che sceneggiature già belle e pronte, soprattutto. Anche da esportazione, per chi volesse, tra Ian Fleming e Cucine (con servizi) da incubo.

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