Garry Kasparov è in Italia per presentare la traduzione del suo libro, “L’inverno sta arrivando. Perché Vladimir Putin e i nemici del mondo libero devono essere fermati” (Fandango editore)

Lo scacco impossibile

Adriano Sofri
Chi farà da “polizia internazionale” contro i tiranni? Per Kasparov l’argine non potrà mai venire da Putin. Mosca aveva fatto dei suoi scacchisti i campioni della pretesa superiorità sull’occidente. Il più grande ora capofila dell’opposizione.

Purtroppo non so niente di scacchi, e poco degli scacchisti, ammesso che sia possibile ignorare il gioco e capire i giocatori. I protagonisti di alcuni dei più bei racconti sugli scacchi sono prigionieri o vagabondi, privati di scacchiera e pedine e però capaci di giocare a memoria. Così nel racconto che Stefan Zweig scrisse nel 1941, alla vigilia del suicidio, “La novella degli scacchi”. Là un giovane avvocato viennese, sottoposto a lungo dai nazisti “alla raffinata tortura della solitudine”, riesce a procurarsi fortunosamente un libro. Non si tratta, come aveva sperato, di Goethe o di Omero, bensì di “un manuale di scacchi, una raccolta di centocinquanta partite magistrali”. Il giovane però impara a giocare contro se stesso e a eseguire ogni partita a memoria: “un’arma meravigliosa contro l’opprimente monotonia dello spazio e del tempo”. (La storia finirà tragicamente, del resto).

 

Così anche nel racconto di Acheng, “Il re degli scacchi”: “– Che faresti se un giorno ti proibissero di giocare e persino di pensare agli scacchi? – Non è possibile, come farebbero? Io so giocare a mente, dovrebbero scavarmi nel cervello”.

 

Forse si deve rinunciare a un’antropologia dello scacchista. Peccato, perché sarebbe bello associare gli scacchi alla ribellione e alla passione per la libertà. Nel 1992 Bobby Fischer andò a giocare contro Spassky a Belgrado, nel pieno dell’aggressione serbista, e fu perseguito per aver violato l’embargo dell’Onu. Nel 1994 Garry Kasparov venne nella Sarajevo assediata a giocare per beneficenza. E’ difficile figurarsi, almeno a prima vista, due persone più diverse, per carattere e per opinioni. Il più famoso dissidente cinese, Wei Jing Sheng, nei 18 anni di galera durissima indirizzò molte lettere ai suoi carcerieri. In una del 1992 scriveva:

 

“I libri e le riviste significano molto per me, molto di più che per voi. Non sono solo degli strumenti di lavoro, sono per me prodotti di prima necessità. Faccio molta fatica a sopravvivere senza libri, senza televisione o senza musica. Voi non avete mai vissuto questo, e così, naturalmente, non capite. Ma gli esseri umani, dopo tutto, non sono bestiame. A loro non basta avere abbastanza da mangiare. Hanno anche un cervello molto sviluppato che si arrugginisce se non viene utilizzato. Il pensiero può allora girare a vuoto e smarrirsi. E’ precisamente per questa ragione che Stefan Zweig ha scritto ‘La novella degli scacchi’”.

 

Quando finalmente fu liberato e poté viaggiare anche in Italia, mio fratello Gianni (cui devo queste notizie) gli chiese quando avesse letto “La novella degli scacchi”. L’aveva letta prima di andare in prigione, nel 1979. Per tutti quegli anni Wei era stato pressoché sempre privato di libri. Poté scrivere dei saggi storici e politici, che più tardi sarebbero stati pubblicati, solo grazie a un esercizio di concentrazione e di memoria prodigioso. Wei aggiunse di aver citato quel racconto perché durante la sua detenzione era stato molto attento a non fare la fine del prigioniero di Zweig.

 

Garry Kasparov, pressoché unanimemente dichiarato “il più grande giocatore di scacchi di tutti i tempi”, ha sperimentato la galera russa, sia pure, per fortuna, molto brevemente. L’Unione sovietica aveva fatto dei suoi scacchisti, quanto e forse più dei suoi astronauti, i campioni della pretesa superiorità sull’occidente. Si capisce quale oltraggio sia per il Cremlino la trasformazione del più leggendario fra quei campioni in un capofila dell’opposizione. Kasparov è in Italia – io lo incontro questa sera a Roma, e magari poi ne riparleremo – per presentare la traduzione del suo libro, “L’inverno sta arrivando. Perché Vladimir Putin e i nemici del mondo libero devono essere fermati” (Fandango editore). Kasparov ha convinzioni e idee nette, e nettamente espresse. Putin è un dittatore, guidato solo dal proposito di accrescere e conservare il proprio personale potere. Non è nostalgico del comunismo, ma della potenza russa e della devozione criminale che sapeva instillare negli uomini del suo apparato, ed esemplarmente del Kgb. Il suo sistema di relazioni interne non evoca Machiavelli ma la famiglia mafiosa. La sua politica internazionale si fonda sulla convinzione di poter giocare al rialzo contro avversari, le democrazie liberali, ormai incapaci di immaginare a fondo il male negli altri e la resistenza in sé. Un giocatore, non di scacchi, ma di poker, persuaso che gli avversari non sappiano più andare a vedere.

 


Garry Kasparov


 

Il libro ricostruisce la vicenda russa dopo la fine dell’Urss, le lezioni di altrettanti disastri internazionali – l’ex Jugoslavia, la Cecenia, la Georgia e soprattutto l’Ucraina – e omicidi di stato – Politkovskaja, Litvinenko, Nemtsov… Ultimato nella primavera del 2015, non comprende il tracollo della geografia politica mediorientale e tanto meno l’intervento russo in Siria, spettacolosa proiezione del conflitto ucraino. Nel lungo e forse perenne terremoto che scuote tanta parte del pianeta, pubblicare un libro di urgente intervento politico corre comunque il rischio di arrancare dietro ai fatti compiuti. Ma offre anche un’occasione per misurare, sulla breve distanza fra il libro e le cose, da che parte tira il vento. Tira, per anticipare una conclusione, dalla parte opposta a quella auspicata appassionatamente da Kasparov. Una prima riflessione, o piuttosto una seccante constatazione, riguarda l’universale anestetizzazione, quando non l’ammirazione sentita, nei confronti della Russia contemporanea e del suo boss. Essa ha finito per unire una ex sinistra, trasferita senza patemi dal Cremlino sovietico al Cremlino putiniano, e una ex destra che non ha più l’ostacolo del preteso comunismo e socialismo a impedirle di far festa al talento sbrigativo dell’autocrazia. E’ in buona parte il risvolto di un antiamericanismo che già associava una destra e una sinistra al tempo della Guerra fredda, quando l’imperialismo qualificava per eccellenza gli Stati Uniti, e l’Urss teneva mezza Europa sotto il tallone. Liberata dalle postazioni obbligate della Guerra fredda e delle ideologie applicate, una vastissima parte dell’opinione e del sentimento dei paesi democratici ha ceduto senza più remore all’immagine degli Stati Uniti, e della loro appendice israeliana, come autori della macchinazione mondiale. Naturalmente, anche i deliri si trovano le loro buone ragioni, e il ruolo che gli Stati Uniti si sono a lungo assunti li ha fatti di volta in volta cadere di qua o di là del crinale stretto della difesa della libertà o della sua violazione. La lingua italiana, e non solo lei, ha due nomi per dire “poliziotto del mondo” o “gendarme del mondo”: quasi sinonimi, ma il quasi vale un abisso. Gli Stati Uniti, benché in modo alterno, hanno preso atto della mutata condizione del mondo e dell’indigerita avventura irachena e, più o meno volentieri, si sono dimessi dal mestiere di gendarme e di poliziotto. Sempre più spesso, e ora nello sfogo poco diplomatico dell’Obama in uscita, hanno denunciato l’inerzia di alleati indocili e opportunisti che vorrebbero scaricare tutto sulle loro spalle. Tuttavia il mondo non ha avuto mai tanto bisogno di una polizia, e non ne è mai stato così lontano. (“Una Magna Carta globale, che conduca a un’organizzazione delle nazioni democratiche unite che sostenga e rafforzi la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo”: così Kasparov). Consumata l’Onu, Vladimir Putin ha appena fatto sfoggio di una napoleonica impresa di gendarmeria in Siria, in difesa del capo di un regime criminale, e con un pubblico europeo ammirato e ipnotizzato. Dopo cinque anni pieni, bisognerebbe censire col lanternino le manifestazioni pubbliche condotte in Europa contro il mattatoio siriano. Obama fissò la sua linea rossa, la ignorò, e oggi se ne dichiara contento.

 

Garry Kasparov – che ora vive a New York – è persuaso che fuori dagli Stati Uniti, e comunque dalla loro guida, non esista argine alcuno alle malefatte di despoti e tiranni. E di quegli Stati Uniti il suo modello è Ronald Reagan: non è difficile da capire se si sia capaci di mettersi (e di essersi messi a suo tempo) dall’altro lato della cortina di ferro. La vera discussione con Kasparov (e altri molti) riguarda proprio la questione che chiamo della “polizia internazionale”. Immaginare un mondo inesorabilmente senza una polizia, un mondo fuorilegge, è insensato quanto immaginare una città o una nazione senza polizia. A questa insensatezza si danno nomi diversi, dal realismo (cioè il cinismo) al pacifismo (cioè all’inerzia o alla complicità). Ma una polizia interviene a fermare un crimine, a soccorrerne le vittime, a consegnarne gli autori alla giustizia: non può proporsi di instaurare una legalità, cambiare un regime, esportare libertà e democrazia. Lungo questo confine passava il favore o la contrarietà alla guerra di Bush e Blair in Iraq. Kasparov, che ne dà un giudizio critico quanto all’attuazione, sembra non fare questa distinzione. Per esempio quando deplora che John Kennedy non avesse autorizzato l’intervento massiccio e aperto della sua forza aerea per rovesciare l’esito della spedizione alla Baia dei Porci promossa dalla Cia. Proprio l’argomento che Kasparov fa più pesare contro i cedimenti compromissori delle democrazie nei confronti dei dittatori come Putin dovrebbe dissuaderlo. In quel 1961, il senatore Fulbright avvertì Kennedy che l’operazione “comprometterebbe la nostra posizione morale nel mondo e toglierebbe ogni credito alle nostre denunce delle violazioni dei trattati compiute dai comunisti”. Era il contrario della “riluttanza dell’occidente a intervenire”, come mostrò subito dopo la cosiddetta crisi dei missili.

 

E a che punto siamo? La gran parte dell’Europa, e con più fretta l’Italia, non vede l’ora di smettere le sanzioni contro la Russia. Del resto si può dubitare delle sanzioni economiche, dal momento che l’aggressività di Putin cresce in misura proporzionale alla riduzione degli introiti di petrolio e gas, e gli permette per ora di rincarare la sua campagna nazionalista e xenofoba. Contemporaneamente l’Europa conduce nei confronti della Turchia di Erdogan il negoziato più immorale che si possa immaginare, pur di arginare l’avvento degli infelici milioni scampati a Bashar e ai jihadisti, che per cinque anni l’Europa e il resto del mondo hanno vilmente omesso di soccorrere. Erdogan, visitato a casa sua dalla signora Merkel alla vigilia di una elezione decisiva (come fece a suo tempo Blair a Mosca), scatena lungo questo negoziato una guerra spietata contro la sua popolazione curda e contro la libertà civile del suo paese. In Russia, sondaggi freschi (forse non del tutto inaffidabili, questi) dicono che gli oppositori più noti al pubblico russo sono Zjuganov e Zhirinovskij, burattini “comunista” l’uno e fascista l’altro nelle mani di Putin. Khodorkhovskij al terzo posto. Michail Kasyanov, già primo ministro con Putin poi fra i più coraggiosi oppositori, conduce la sua campagna per la Duma (da eleggere a settembre) fra minacce di morte e vessazioni di ogni genere. Le democrazie sono intontite, e la libertà del mercato si mostra tutt’altro che incompatibile con le autocrazie finanziarie e politiche, come in Cina. Nell’America repubblicana la campagna di Trump va rivelando uno spirito animale spaventoso. Kasparov guarda costernato ai due imprevisti compagnoni, Putin e Trump, accomunati solo dall’ “istinto autoritario e la venerazione per il potere”, e conclude: “Se l’endorsement di Putin non basta a convincervi che Trump sia la peggiore scelta possibile per la presidenza, niente basterà”. Già.

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