Ricordate la commissione Stragi? Al telefono i commessi rispondevano così alle chiamate, per dire della serietà e compostezza istituzionale: “Straaaaaaggiiiiiiii, dica!”

(com)Missione impossibile

Mario Sechi
Molto chiasso, zeru tituli. Ci casca pure Renzi. Inchiesta sull’allegra inutilità delle commissioni di inchiesta. Il Pd renziano la propone oggi per andare a fondo sul pasticcio delle banche. Qualunquismo bancario e rischi concreti – di Mario Sechi

Mancavano i manifestanti al portone di Bankitalia. Sono arrivati. Lo scenario ora è completo. Quasi. Alla sceneggiatura del qualunquismo bancario manca la commissione parlamentare che studia, accusa, ausculta, prende le misure. Commissione d’inchiesta o d’indagine? Dilemma. Con poteri della magistratura o senza? Rebus. Si vedrà. Al cronista in questo caso viene in mente il vecchio detto che circola in Transatlantico: quando si vuole insabbiare bene un caso, si fa una bella commissione d’inchiesta parlamentare. Così quando qualche giorno fa Renato Brunetta ha proposto di istituirne una per indagare su banche e risparmiatori e Matteo Renzi ha detto di non essere contrario all’idea (ma poi si vedrà) sul taccuino sono cominciati a piovere un po’ di ricordi. Si può fare la commissione sugli obbligazionisti (in)subordinati? Certo, occasione succulenta per chi fa il nostro mestiere, ma vedrete quale opera magna ne verrà fuori. Una commissione d’inchiesta (o d’indagine, fate voi) serve ad alimentare il caos, fare manovre da sottosopra (per esempio indicare l’exit al governatore di Bankitalia, Ignazio Visco), portare in prima pagina un presidente che diventa protagonista per mesi (intere carriere sono state create così), scodellare rivelazioni e far bollire scoop di cartapesta. E poi c’è tutto il traffico dentro e fuori, i senatori e deputati, i segretari, i consulenti esterni. La commissione parlamentare mette in moto una macchina che voi umani non potete immaginare. L’argomento è perfetto: le banche e il povero risparmiatore mai stato investitore, al massimo investito. Il massimo per esprimersi ai minimi livelli.

 

La storia conferma con puntualità svizzera e beffardaggine italiana il quadro. Qualche giorno fa è morto Licio Gelli, novantasei anni, nessuno ne ricordava l’esistenza. Ma quando è comparso il lancio d’agenzia sul passaggio all’altro mondo, zac! Sui giornali e i telegiornali sono comparsi titoli da strillone e pensosi commenti che avevano il tono del mistery: “Quanti segreti si è portato nella tomba…”. Ma come? Non aveva chiarito tutto la super commissione di inchiesta sulla loggia massonica P2 guidata da Tina Anselmi? Perbacco, come no? Anno 1981, venti senatori e venti deputati si spremono le meningi e compulsano i volumi di Sherlock Holmes sull’arte dell’investigazione, due legislature e tre anni di lavoro, una relazione conclusiva di Tina Anselmi, cinque relazioni di minoranza (Teodori, Pisanò, Matteoli, Ghinami, Bastianini), ventiquattro volumi di allegati per un leggerissimo totale di novantatré tomi, senza considerare gli indispensabili Indici. Quella che sui giornali di ieri fu la Verità della commissione Anselmi, diventa oggi il segreto sigillato nella bara di Gelli. Strepitoso testacoda dell’archivista.

 

E’ una storia lunga quella delle commissioni d’inchiesta, specialità del menù politico, sollazzo dei cronisti, un forno a legna sempre acceso, pronto all’ordinazione in sala, un cotto e mangiato del nostro costume nazionale e irrazionale. E’ il bisogno patrio della complicazione per evitare la spiegazione, il rapporto parlamentare come arma di distrazione di massa, un percorso di secolare inganno e meraviglia che comincia nel 1918 con la commissione sulla disfatta di Caporetto: 241 sedute dal 15 febbraio 1918 al 25 giugno 1919, 2.310 documenti e 1.012 testimoni. Due volumi pesantissimi furono consegnati al presidente del Consiglio Francesco Saverio Nitti. Tutto per scoprire (e coprire con pietoso coperchio istituzionale) che la dodicesima battaglia dell’Isonzo sotto il comando supremo del generale Luigi Cadorna era entrata di dritto e di rovescio nel guinness dei fiaschi militari: 13 mila morti, 30 mila feriti e 265 mila prigionieri. Queste, più o meno, le stime della storia. Sbandamento, fuga, massacro, “la madre di tutte le batoste”.

 

[**Video_box_2**]Caporetto è la biografia delle commissioni parlamentari, della loro proliferazione come arma non convenzionale, indice alfabetico da emicrania di una nazione analfabeta (d’andata ieri e di ritorno oggi) e senza sprezzo del ridicolo. L’elenco avrebbe fatto impazzire François Rabelais di buffonesca gioia. Perché pantagruelico è il menù delle commissioni parlamentari d’inchiesta. C’è un problema? Risolto! Si indaga con un collegio di deputati e senatori, tiratori scelti di una battaglia che ha sempre altri scopi rispetto agli alti scopi. Varata la Repubblica, se ne avviarono subito due, di commissioni, sulla disoccupazione e sulla miseria. Correva l’anno 1948, fu il preludio di una sinfonia dove ieri e oggi quasi s’odono i tromboni. I veri solisti dello spartito d’indagine. Prima legislatura, due commissioni così scontate non potevano bastare, si capì subito che occorreva impegnarsi di più, così arrivarono le commissioni speciali, diverse dalle investigative ma sempre usate con clamore e senza candore: per le alluvioni dell’autunno 1951, sulla Cassa per il Mezzogiorno, per istituire il Cnel, per i funerali di Vittorio Emanuele Orlando, per le locazioni, per l’ordinamento degli enti locali in Sicilia (l’isola diventerà fonte di un serial di inesauribile fantasia), sui provvedimenti speciali per la città di Napoli (altra saga immaginifica, giunta fino ai nostri giorni), arrivò prontamente quella sul debito pubblico e subitissimo fu istituita la commissione di vigilanza sulle radiodiffusioni, poi mutata in Rai e domani chissà. Neanche le onde elettromagnetiche sfuggirono al radar parlamentare. Ecco, questa è la partenza, il principio di tutto, da questa sorgente sulfurea salgono e scendono, su e giù per i rami della storia, tutte le altre commissioni. Un tripudio di invenzioni politiche e impolitiche che non ha rivali nella storia d’Oriente e d’Occidente. Essenza e distillato del nostro bizantinismo.

 

La seconda legislatura fece partire l’inchiesta sulle condizioni dei lavoratori che affiancò quella sulla miseria, quella sulle ricompense al merito militare e civile, un’altra alluvione in autunno nel 1953 (in Calabria, altra lunga serie di morti e parole) alla quale si aggiunse in passerella quella sull’alluvione estate e autunno sempre del 1953, fece l’esordio la commissione speciale sulla città di Roma (telenovela giunta fino all’indimenticabile puntata marziana su Ignazio Marino), una sui provvedimenti straordinari per l’Abruzzo e ancora provvedimenti altrettanto straordinari per la Calabria. E’ il giro d’Italia del disastro con l’assegno di risarcimento incorporato, il vedo, stravedo e provvedo, il ciclo economico dell’emergenza e del fondo assegnato in eterno, del dico, non vi dico ma soprattutto spendo. E votate, mi raccomando. La terza legislatura della Repubblica ha già un discreto allenamento sulla materia, l’ingranaggio di costruzione e costituzione del collegio pronto a tutto è oliatissimo. Signore e signori, italiani! Il grande tema dell’oggi rimbalza dal passato come in ritorno al futuro, ecco la commissione d’inchiesta sull’Anonima banchieri, nota come “caso Giuffrè”, da Giovan Battista Giuffrè, ribattezzato il banchiere di Dio per i suoi agganci vaticani, impiegato di Imola che modestamente sapeva il fatto suo e non aveva bisogno dell’obbligazionista (in)subordinato per agire: garantiva un tasso di interesse del cento per cento e usava quello che divenne un classico della truffa:  lo “Schema Ponzi”. Come funzionava (e funziona)? Una catena di Sant’Antonio di allocchi dove i primi investitori venivano rimborsati con i soldi versati dagli ultimi e quando i rimborsi superarono i versamenti… crash! Il caso Giuffrè fu un terremoto politico, il ministro delle Finanze Luigi Preti aprì il caso per affondare – tramite Amintore Fanfani (toh! è subito Arezzo) il suo predecessore Giulio Andreotti, accusandolo di “mancata vigilanza”, in sostanza di aver coperto Giuffrè. Spuntò un memoriale. Falso. La verità? Che importava, si faceva politica anche così. Tra gli stangati, i Frati Cappuccini, naturalmente il Papa istituì una bella commissione d’inchiesta, cardinalizia. E’ la storia che si diverte a srotolare un anticipo del futuro: sono gli anni in cui nasce la commissione Antimafia (esordio nel 1962) ma già si profila all’orizzonte tutto il capitolo retorico sulla corruzione e come un razzo decolla la commissione sulla costruzione dell’aeroporto di Fiumicino. Il domani, il nostro scintillante oggi, era già scritto, previsto, sottoscritto e, naturalmente rimborsato a piè di lista dal contribuente spesso ignaro, ma in fondo consenziente sul tran tran della spesa e della costruzione del debito. Italiani che alimentano un’alluvione di leggi e denari che corrono pericolosamente a valle. E le tragedie, immani. Eccolo, il disastro del Vajont, la commissione sulla strage fa la sua comparsa nella quarta legislatura, lavora cinque anni (dal 1963 al 1968, produce una relazione finale e due di minoranza. Sono trascorsi 52 anni da quella tragica notte del 9 ottobre 1953 e ancora si inseguono una, due, tre, tante verità sulla frana del Monte Toc e la tracimazione delle acque del bacino su Longarone: 1917 morti. Altro disastro, altra commissione d’inchiesta, quella sul terremoto del Belice. Il diluvio e il movimento tettonico, lo scroscio e il crollo, nessun tema può restare scoperto, ogni pagliuzza e trave sono sottoposte all’analisi dei parlamentari. Si battano i piatti e si alzino i tromboni, la quinta legislatura manda in scena la commissione d’inchiesta sulla criminalità in Sardegna e quella che aprirà una feconda stagione di spie, spioni, colpi di stato semiveri, semiseri e molto immaginari, ecco la commissione che indaga sullo scandalo Sifar e, naturalmente l’accompagnamento delle puntuali alluvioni del 1968. Volete comparare l’opera di Ian Flemins su James Bond con il raccontone sul Sifar italiano, la schedatura italica, terreno di pascolo del giornalismo pistarolo a cui nulla sfugge? Una relazione di maggioranza, quattro di minoranza, altri due bei volumoni di storia patria e un vulcano di rivelazioni che continuano a seconda dell’archivio e del tomo. Siamo già in una fase che richiederà palazzi, stanze, biblioteche, futuri terabyte d’archiviazione.

 

Calma e gesso, nella sesta legislatura entra nell’indice delle indagini senza fine e senza soluzione quella sulla “giungla retributiva”, un chiaro mai più senza che dà un colpo decisivo allo stato confusionale del contribuente italiano. La settima legislatura ha il suo disastro e l’automatica commissione: incidente all’Icmesa, l’inquinamento chimico di Seveso. Tripletta incredibile nell’ottava legislatura con tre commissioni d’inchiesta da abbonamento premium e serial tv garantito: Moro, Loggia P2, Sindona. Siamo nel 1978, annus horribilis, nel 1979 il Parlamento si trasforma nell’agenzia investigativa Pinkerton. Non manca un terremoto con relativa commissione incorporata, stavolta in Campania e Basilicata. E la corruzione? C’è sempre e trova risposta immediata e cura indefinita nello spazio e nel tempo. Ecco i parlamentari aprire i lavori della commissione d’inchiesta sui fondi neri dell’Iri. Vaste programme. Siamo nella nona legislatura, partenza nell’anno 1983, i collegi d’indagine precedenti hanno funzionato così bene che viene formata con velocità supersonica la “Commissione parlamentare d'inchiesta sui risultati della lotta al terrorismo e sulle cause che hanno impedito l'individuazione dei responsabili delle stragi”. Epigrafe da tesi di laurea a Tubinga, stragi rigorosamente irrisolte. Al telefono i commessi rispondevano così alle chiamate, per dire della serietà e compostezza istituzionale: “Straaaaaaggiiiiiiii, dica!”. Ma no dai, stavolta si fa sul serio, non ci sono dubbi, il momento è grave, bisogna rifare la Repubblica! Allo scopo viene attrezzata anche una commissione che d’indagine non è ma va citata come nuovo inizio di un altro ciclo eterno, quello delle riforme istituzionali, la famosa commissione Bozzi, destinata a suscitare fiumi di citazioni negli anni a venire e a non arrivare ad alcuna riforma. Al massimo tavoli. Rovesciati come in saloon. La sabbia nella clessidra è giunta al livello della targhetta del 1987, altro anno turbolento. Ad Atlanta, Stati Uniti, la filiale della Banca nazionale del lavoro concede prestiti a un dittatore iracheno chiamato Saddam Hussein. E’ in guerra con l’Iran, deve finanziare l’acquisto di armi, cerca soldi. Gli americani guardano dentro la cassaforte e scoprono che i soldi passano attraverso il manager della banca italiana, Christopher P. Drogoul. Il nome in codice dell’operazione è un’anticipazione della tarantella suonata dalla commissione di inchiesta in Italia: “Perugina”, come i baci. Cose che accadono all’estero, lontano dagli occhi, dal cuore e soprattutto dal bilancio dello Stato. A proposito di oltre confine, non disperate, nell’undicesima legislatura si fa una bella commissione sulla Cooperazione all’estero. La dodicesima e tredicesima legislatura sono il canto del cigno della prima repubblica e la nascita della seconda. Forse. Nel 1994 cambia lo scenario politico, i partiti storici sono stati decimati dalla magistratura, c’è un tal Di Pietro, c’è Berlusconi, c’è Bossi, resistono i post comunisti, bisogna dare un segnale di svolta e si torna a sventolare la bandiera dei temi sociali, perdinci. Il Senato apre i lavori d’indagine niente meno che su caporalato, ciclo rifiuti e sistema sanitario, alla Camera rispondono prontamente, non perdono un colpo, cribbio, con le investigazioni sull’Acna di Cengio. Montecitorio e Palazzo Madama puntano la lente sul dissesto di Federconsorzi, per liquidare meglio i resti della Dc, figuriamoci. Ottocento ex dipendenti ancora oggi cercano risarcimento. Tono minore, in ogni caso, rispetto all’impegno da detective del passato. Ma il riscatto pieno, il ritorno agli anni ruggenti arriva nella quattordicesima legislatura dove il centrodestra berlusconiano infila un triplete di commissioni da sballo mediatico: Mitrokhin, TeleKom Serbia e crimini nazifascisti. Le prime due avevano un camion di documenti sui quali riscrivere un pezzo di storia, la terza era un esercizio accademico. Il dossier Mitrokhin nel Regno Unito fece il botto, in Italia venne trattato come un feuilleton, salvo poi coprire con il segreto i documenti della commissione che oggi non sono disponibili neanche per gli studiosi. Stranezze. Lo scandalo Telekom Serbia invece aveva solida documentazione diplomatica, giri di soldi già tracciati, un conte come intermediario e altre sagome nell’ombra, depositi a San Marino, insomma un dossier eccellente per essere una cosa seria, ma in commissione accreditarono un teste, Igor Marini, che con i suoi racconti tanto finti e precisi da sembrare veri finì per portare la storia verso un epilogo grottesco. Fu un naufragio da manuale. Il Senato in quel periodo, siamo nel 2001, esercitò il suo sapere sul fiume Sarno, sulle morti bianche, sull’uranio impoverito, sul sistema sanitario. C’era l’Italia da rivoltare, altro che, e i parlamentari erano pronti alla grande missione. Alla Camera si occuparono della morte di Ilaria Alpi e di Miran Hrovatin, anche qui un risultato finale con molto rumore sui giornali ma zero tituli. Al grande polverone, seguì un periodo di più modesti obiettivi, di dimesso impegno, così la quindicesima legislatura lascia sul taccuino del cronista poche tracce, a meno che non si provi folgorazione per l’intrigante caccia parlamentare agli errori sanitari. La sedicesima legislatura non offre colpi di scena, fa il punto sulle morti bianche, non si entusiasma nessuno in redazione con relazioni sulla pirateria e la contraffazione.

 

Così, trascinati dalla corrente come un gigantesco albero sradicato dalla storia, si arriva ai giorni nostri, dove si capisce che c’è un fermento, una gran voglia, un desiderio di ribalta, di cagnara, di zuffa politica inespressa, di sottovuoto spinto a cui dare sfogo creativo. Ma ancora non ci siamo, i fermenti non sono così potenti, è una diciassettesima legislatura che si apre al Senato sotto la guida di Pietro Grasso e le commissioni sono dunque un derivato del suo stato gassoso; una commissione sugli infortuni sul lavoro (riecco l’impegno sociale), una sulle intimidazioni agli amministratori locali, e la quanto mai puntuale commissione d’inchiesta sul rogo del traghetto Moby Prince, a soli 24 anni dalla collisione tra la nave passeggeri e la petroliera Agip Abruzzo al largo del porto di Livorno. Si sa, il Parlamento in queste cose è tempestivo. Nell’impero di Laura Boldrini il recital è un po’ più vispo: pirateria e contraffazione, effetti dell’uranio impoverito, ciclo dei rifiuti e illeciti ambientali, l’antimafia bindiana in versione extended, dove c’è la Boldrini ovviamente c’è un’indagine sui migranti e infine il flashback, la fenomenale macchina del tempo di Montecitorio in piena azione: la commissione d’inchiesta sul rapimento e sulla morte di Aldo Moro. Trentasette anni dopo. Ancora audizioni, ricostruzioni, rivelazioni. Se ne sentiva il bisogno. Aprite il taccuino, prendete appunti.

 

A volte ritornano.

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