“Solo contro tutti, Raspail è fedele alle virtù antiquate: la lealtà, l’onore, la tradizione, il sacrificio…”

Vide l'apocalisse

Giulio Meotti
Jean Raspail ha profetizzato l’arrivo dei migranti in un libro-culto del 1973. Un autore “razzista” che angosciava Mitterrand e Reagan. Un professore in Costa Azzurra vede arrivare milioni di migranti sulle zattere. Ma il suo obiettivo è l’occidente opulento.

Don Chisciotte di una monarchia senza corona, paladino delle cause perse, cavaliere senza tempo dei popoli dimenticati o sacrificati, Jean Raspail è il nostro ultimo Chouan”. Così, un anno fa, il settimanale Valeurs Actuelles definiva Jean Raspail, usando quella parola, i “chouan”, i baciapile, i nemici della Rivoluzione, i servi dei nobili, i cattolici, un grande pezzo di Francia che aveva osato levarsi contro la volonté générale. E infatti Raspail non esita a rendere omaggio in Place de la Concorde, il luogo simbolo della Rivoluzione, a Luigi XVI e a deporre un fiore sul luogo in cui, nello stesso giorno di duecento anni fa, il re lasciò la testa sul patibolo.

 

“Solo contro tutti, Raspail è fedele alla virtù antiquate: la lealtà, l’onore, la tradizione, il sacrificio, l’altruismo, la fede nel miracolo…”. E’ questo Raspail per tanti francesi: il profeta. Per tanti altri, invece, è un intellettuale razzista e scomodo. Nel 1973, in Francia, l’editore Laffont pubblicò il suo libro “Le camp des saints”. Il campo dei santi del titolo deriva da un versetto dell’Apocalisse: “Marciarono su tutta la superficie della terra e cinsero d’assedio il Campo dei santi e la città diletta”.

 

Non un buon libro, in termini letterari; è ripetitivo e i personaggi sono stereotipati. Ma ha un grande pregio: aver per primo intuito l’arrivo in Europa di grandi masse di diseredati e il collasso della civiltà europea. Raspail viene prima di tutti gli altri pessimisti francesi, Alain Finkielkraut, Renaud Camus, Eric Zemmour, Michel Houellebecq… Lungi dall’essere il “razzista” dipinto dalla gauche francese, come etnologo si è sempre messo alla ricerca di culture e popoli in via d’estinzione, dalla Patagonia all’Alaska, dalle Antille alle Ande. “Sono un difensore di tutte le razze minacciate, compresa quella bianca”, ha detto di sé.

 

Una grande contraddizione agita le pagine di Raspail. Perdere la propria anima innescando un massacro per salvare una civiltà o perdere questa stessa civiltà? La premessa del romanzo è l’invasione della Costa Azzurra da parte di un’orda proveniente dalle rive del Gange. La scena di apertura incanta, con il vecchio professore di letteratura nella sua casa in riva al mare, di fronte a un meraviglioso pasto, tra i suoi libri e una pistola carica, mentre arrivano i primi migranti.

 

Il catalizzatore per questa irruzione è semplice. Il governo belga ha deciso di ammettere e adottare un certo numero di bambini piccoli; ma la politica apre in massa quando decine di migliaia di madri iniziano a spingere i loro bambini contro le porte del consolato belga a Calcutta. Un predicatore chiama i poveri e i miserabili ad avanzare sul paradiso occidentale. Ai derelitti appare il santone, il Mahdi, il messia della tradizione islamica, che predica “l’occidente gode di ogni ben di Dio e noi moriamo di fame”.

 

Ma non è la massa rannicchiata di indiani al centro dell’attenzione di Raspail, quanto le varie risposte dei francesi e degli altri membri privilegiati del “campo dei santi”. Lo scrittore è particolarmente efficace nel catturare le banalità di annunci ufficiali, le voci della gente comune, il tono delle dichiarazioni dei vescovi.

 

Lo schieramento immaginato da Raspail è chiaro: da una parte, l’umanitarismo trendy; dall’altra, un po’ meno credibili, i rappresentanti della civiltà bianca occidentale: ufficiali cinici e spietati, il professore di letteratura, un indiano “bianco” e così via. Gli europei da anni non fanno più figli, sono vecchi, stremati. La fiumana di gente scura di pelle e pigiata vince, prende il controllo della Francia e di fatto abolisce i bianchi, già declinante minoranza in tutto l’occidente. Secondo Raspail, altre orde terzomondiste stanno affrettandosi verso di noi dal Terzo mondo e tutte le forze tradizionali dell’ordine e della razionalità, guidate da gente troppo buona, stanno commettendo un deliberato suicidio culturale. L’epilogo del libro, con la popolazione francese in fuga dalle regioni meridionali e unità dell’esercito che disertano in massa, è particolarmente drammatico. Come ha ben detto il mensile The Atlantic, quello di Raspail è “uno dei romanzi più scomodi di questo scorcio di secolo”.

 

Un romanzo che sconcertò non poco anche la Casa Bianca. Siamo a Washington, all’inizio del 1980. Il capo del controspionaggio francese, il conte Alexandre de Marenches, vede il suo amico Ronald Reagan. I due evocano la guerra in Afghanistan. Al termine della conversazione, lo spione francese passa al presidente degli Stati Uniti un romanzo francese (tradotto in inglese): “Le consiglio di leggere il ‘Campo dei santi’…”. Un paio di settimane più tardi, Reagan incrocia di nuovo Marenches e gli dice: “Ho letto il libro che mi hai dato. Mi ha terribilmente colpito”. La stampa francese ha sempre cercato di fare terra bruciata attorno al romanzo di Raspail: “Dovete chiamare ‘Il campo dei santi’ per nome: un libro razzista”. Così ha scritto Daniel Schneidermann su Libération. Ma questo non ha impedito che diventasse una sorta di libro di culto.

 

Dal suo appartamento nel XVII arrondissement, Jean Raspail, ottantacinque anni e una silhouette giovanile, è tornato di recente a parlare ai media. “Mi prendo la mia vendetta, gli eventi confermano quello che avevo immaginato”, ha detto il letterato che nega di essere di “estrema destra”. “Non ho alcun desiderio di far parte del grande gruppo di intellettuali che spreca il loro tempo a discutere di immigrazione”, ha detto Raspail. “La gente sa tutto intuitivamente: che la Francia, come i nostri antenati l’hanno progettata da secoli, sta scomparendo. Ma parlano incessantemente di immigrazione, senza mai dire la verità finale. Una verità che è anche indicibile. Siamo finiti e la Francia, con la sua cultura, la sua civiltà, viene eliminata senza nemmeno un funerale. Dal mio punto di vista, questo è ciò che accadrà”.

 

Colui che, nel Dopoguerra ha vissuto in Patagonia a Ushuaia e che ha piantato la tenda tra le rovine di Machu Picchu, è sempre stato appassionato del destino dei popoli minacciati. Raspail è famoso soprattutto per i libri che raccontano le sue esperienze in Alaska, ai Caraibi, sulle Ande. Per il suo “Moi, Antoine De Tounes, roi de Patagonie” è stato insignito del prestigioso Grand Prix du Roman de l’Académie Française, e c’è mancato poco che nel 1993 non venisse eletto fra i suoi immortali.

 

[**Video_box_2**]Quando scrive quel romanzo non ci sono immagini di migranti alle frontiere d’Europa. Siamo nel 1972, il Fronte nazionale non esiste, così come il dibattito sull’immigrazione. Le immagini dei boat people vietnamiti? Il dibattito sul ricongiungimento familiare lanciato da Valéry Giscard d’Estaing? Difficile capire cosa abbia ispirato l’autore a immaginarsi una Europa presa d’assalto dai migranti. C’è un altro americano, non da ultimo, che rimane segnato da questo romanzo: Samuel Huntington. Nel suo famoso “Scontro di civiltà” (Odile Jacob), il professore di Scienze politiche evoca il “romanzo incandescente” di Raspail.

 

Alla fine del 1985 l’intellettuale francese offese di nuovo, unendo le forze con il demografo Gerard Dumont, nello scrivere un articolo sul Figaro Magazine, in cui sosteneva che la componente immigrata non europea in rapida crescita della popolazione straniera avrebbe messo in pericolo la sopravvivenza della cultura francese, i suoi valori, la sua identità. L’articolo Raspail-Dumont fu imbarazzante per il governo socialista. Non meno di tre ministri di quell’esecutivo, compreso il primo ministro Laurent Fabius, attaccarono i due autori definendo il loro scritto “propaganda razzista”.

 

Raspail torna a far discutere nel 2004 con un lungo articolo, scritto per il Figaro, che gli è costato una denuncia della Lega contro il razzismo e l’antisemitismo. Lo scrittore vi sosteneva che “l’Europa cammina verso la morte. (…) Il silenzio quasi sepolcrale dei mezzi di comunicazione, dei governi e delle istituzioni comunitarie sul crollo demografico dell’Europa dei 15 è uno dei fenomeni più importanti della nostra epoca”. E ancora: “Quando c’è una nascita nella mia famiglia o fra i miei amici, non posso non guardare a questo senza pensare a quello che lo aspetta”.

 

Tempo fa lo scrittore era stato contattato dall’editore Laffont, che gli aveva spiegato del “Campo dei santi”: “Non ristampabile, si rischia l’azione penale”. Raspail si rifiuta di cambiare la minima sillaba. E chiede aiuto a un amico avvocato, Jacques de Villers Trémollet. La Laffont decide di ripubblicarlo così com’è, con l’aggiunta di una prefazione del direttore editoriale della casa editrice, Leonello Brandolini, che giustifica la decisione e che con prudenza prende le distanze dal suo stesso libro.

 

Raspail da sempre si prepara a far fronte a qualche organizzazione antirazzista o islamica che proverà a trascinarlo in tribunale. Ha contato 87 passaggi del libro che possono essere processati. “Se sarò attaccato, ho preparato il mio paracadute”, sorride l’ottantenne, e punta il dito su un grande raccoglitore nero in cui ci sono tutte le lettere ricevute sul “Campo dei santi” dal 1973 a oggi. Ci sono André Malraux, François Mitterrand e Nicholas Sarkozy. Nessuno sa ciò che queste lettere contengono davvero. Raspail ha detto che lo rivelerà soltanto dopo la sua morte o se costretto a difendersi in tribunale. I lettori recepiscono la visione di Raspail con disagio e il suo linguaggio come vizioso e ripugnante, ma il nucleo del romanzo è centrale e chiaro: nel XXI secolo un mondo costituito per la maggior parte da un numero relativamente piccolo di ricchi, sazi e demograficamente stagnanti si scontrerà con un gran numero di nazioni povere di risorse, religiose e le cui popolazioni stanno raddoppiando. Il libro è costellato di riferimenti a Carlo Martello, alla caduta di Costantinopoli, a Giovanni d’Austria, a Kitchener a Omdurman, per rafforzare l’idea che ciò che sta accadendo è parte di un Kulturkampf millenario.

 

Chi accolse con maggiore nervosismo il libro di Raspail furono gli intellettuali della Sorbona. Ma ci sono tutti nel romanzo di Raspail: la collezione di ecclesiastici che perora per tolleranza; gli intellettuali e le star dei media che pensano che questo sia un grande evento; gli hippie, i radicali della controcultura. Il Papa eletto è brasiliano, sul modello di Hélder Câmara. In uno degli eventi più drammatici, alla fine del libro, il leader dei radicali francesi è ritratto mentre corre per accogliere la folla di migranti per ritrovarsi “travolto a sua volta, portato via dall’orda”.

 

Per Jean Raspail, in fondo, siamo come gli Alakaluf della Terra del fuoco, quel popolo scomparso per il quale ha vinto il premio Chateaubriand, e al quale ha dedicato il libro intitolato “Qui se souvient des hommes”. Ovvero, chi si ricorda degli uomini. E del campo dei santi.

Di più su questi argomenti:
  • Giulio Meotti
  • Giulio Meotti è giornalista de «Il Foglio» dal 2003. È autore di numerosi libri, fra cui Non smetteremo di danzare. Le storie mai raccontate dei martiri di Israele (Premio Capalbio); Hanno ucciso Charlie Hebdo; La fine dell’Europa (Premio Capri); Israele. L’ultimo Stato europeo; Il suicidio della cultura occidentale; La tomba di Dio; Notre Dame brucia; L’Ultimo Papa d’Occidente? e L’Europa senza ebrei.