Uscito anche dal Monte dei Paschi di Siena, Alessandro Profumo non va ai giardinetti, si trasforma in imprenditore della finanza. I rovesci della fortuna non ne hanno piegato l’ambizione

Profumo di tramonto

Stefano Cingolani
Che fine ha fatto il grande banchiere della sinistra? Mr. Arrogance è caduto di nuovo dall’altare. Ma (forse) non mangerà la polvere.

Solo in Italia avviene che chi lavora gratis per risanare una crisi venga insultato”: Alessandro Profumo non trattiene la propria amarezza e si sfoga, dopo aver annunciato l’uscita anche dal Monte dei Paschi di Siena. Era stato chiamato in seguito all’attacco giudiziario che ha messo in ginocchio la più antica banca italiana e aveva accettato di fare il presidente senza percepire un euro. E’ vero, ne ha incassati proprio tanti lasciando Unicredit cinque anni fa, ben 40 milioni, e si è subìto persino una ramanzina dalla Banca d’Italia. In ogni caso nessun altro banchiere ha mai fatto un gesto come il suo. E’ un banchiere anomalo Profumo, un banchiere progressista, anzi apertamente di sinistra, di quella sinistra moderata e moralista, così perbene che quasi non ci si crede. Una sinistra che molti vedono rottamata dal “maleducato di successo” il quale cita Gilbert K. Chesterton per rivendicare la legittimità democratica delle proprie maniere; mentre gli altri, quelli dell’inchino e del baciamano, ne hanno fatte più di Carlo in Francia, anzi in Svizzera (in Lussemburgo, in Olanda, insomma ovunque il potere basato sul denaro è protetto da istituzioni compiacenti).

 

Profumo al tramonto, dunque, assume il sentore acre di pietre che rotolano, di macerie fumanti, di polvere che impiegherà anni prima di depositarsi. Profumo non fa più il banchiere, un mestiere al quale ha aspirato da quando sedeva dietro lo sportello del Banco Lariano in piazzale Loreto, a Milano, con accanto i libri dell’Università. Ferruccio de Bortoli non sta più in via Solferino dove era entrato con i calzoni corti. Romano Prodi non è più presidente (un ruolo al quale si era preparato fin dai tempi in cui assisteva Beniamino Andreatta all’università Cattolica). E non sono i soli in transito nel giardino della gloria. Resta tra i gattopardi Giovanni Bazoli ma anche lui, proprio come il principe di Salina, vede arrivare “gli sciacalletti, le iene”.

 

Al bando la commozione: che cosa è successo a Profumo, perché è sceso così velocemente dagli altari? Qualcuno sostiene che il segreto della sua forza è anche quello della sua debolezza ed entrambi si trovano in McKinsey, la società di consulenza aziendale che lo ha lanciato nell’empireo. Lì si impara a governare una impresa di qualsiasi natura, come meglio non si può. Con razionalità, grande capacità organizzativa, tenacia e pelo sullo stomaco. Tuttavia, i McKinsey boy sono plasmati per gestire, non per concepire grandi strategie.

 

Il potere economico in Italia è retto dalle banche che per un secolo sono state in mano a una plutocrazia laico-massonica lungo l’asse trasversale che da Genova e Torino arriva a Trieste passando per Milano; e a una oligarchia cattolica divisa tra lombardi e romani che non sempre hanno combattuto sullo stesso fronte. Gli anni Novanta fanno cadere anche questi muri e rimescolano tutto. Le banche vengono privatizzate, i cattolici vanno a sinistra, i laici soprattutto a destra con diverse sfumature. Ed emergono uomini nuovi, tecnocrati, anglofoni e anglofili, sempre pronti a parlar di mercato e a disprezzare la politique politicienne, che credono di poter cambiare le regole, anche se presto scopriranno a loro spese le leggi bronzee del grande gioco. I due esponenti maggiori di questa diversa “razza padrona” sono Corrado Passera e Alessandro Profumo. Il primo finirà nell’orbita di Bazoli, il secondo, cresciuto all’ombra di Lucio Rondelli, il vero patron del Credito Italiano, si incrocia con Cesare Geronzi. Passera scoprirà la politica fino a trasformarla nella sua seconda professione e oggi aspira a rifondare il centrodestra post berlusconiano. Profumo si presenta, torregiante come suo solito, al seggio delle primarie del Pd allora guidato da Walter Veltroni per sostenere Prodi candidato premier. Ma ormai anche la finanza come la politica è a geometria variabile.

 

Morto Cuccia nel 2000 e uscito di scena Rondelli, comincia la partita per occupare il centro della scacchiera. Geronzi, che si era fatto le ossa prima in Banca d’Italia, poi nella Cassa di Risparmio di Roma, uomo di relazioni, con grande senso della politica e fiuto per le occasioni propizie, ha dalla sua parte il governatore della Banca d’Italia Antonio Fazio, cattolicissmo anche lui, ma cattolico romano quindi molto diverso dal bresciano Bazoli. Profumo non era mai andato a genio a Fazio e agli uomini di via Nazionale che lo avevano spesso frenato nella sua bulimia assemblatoria: no alla fusione con la Banca Commerciale, no al Mediocredito centrale e no al Banco di Sicilia. Falliscono anche gli approcci con il Banco di Bilbao, la Commerzbank, il San Paolo di Torino. Profumo va avanti lo stesso, aggrega casse di risparmio e banche locali da Verona all’Emilia Romagna, da Trento a Trieste. Finché nel 2005 non arriva il salto oltre le Alpi per creare la prima banca internazionale con testa e piedi in Italia. Un sogno realizzato; prima però, deve imprimere uno scrollone al vecchio establishment finanziario. E qui diventa il braccio esecutore di un disegno pazientemente tracciato da Geronzi il quale salirà prima alla presidenza di Mediobanca, poi al vertice delle Assicurazioni Generali, cioè i sancta sanctorum del potere laico-massonico.

 

Con il banchiere romano, Profumo dà l’assalto all’istituto di via Filodrammatici del quale entrambi erano azionisti (attraverso il Credit e il Banco di Roma), per defenestrare Vincenzo Maranghi, figlioccio e successore di Cuccia. Si apre l’uscio che conduce al cuore della finanza italiana, ormai in mano al duopolio Bazoli-Geronzi, un rapporto quando competitivo quando consensuale se non proprio spartitorio. Il sodalizio con Profumo nel 2007 porta a fondere insieme il Credito Italiano e Capitalia costruita con i mattoni del Banco di Roma, della Cassa di Risparmio e del Banco di Santo Spirito, la ex cassaforte della Curia. “Chi gli ha suggerito l’abbraccio con Geronzi - si chiede Giancarlo Galli, uno dei più acuti analisti del sistema bancocentrico italiano - Romano Prodi, Walter Veltroni, l’amico Mario Draghi con il quale conversavano in inglese?”. In realtà, il matrimonio appare una scelta obbligata dopo che la Banca Intesa di Bazoli era convolata a nozze con il Sanpaolo di Torino, una soluzione auspicata (ispirata secondo alcuni) da Prodi tornato a palazzo Chigi alla guida di una coalizione rissosa e improbabile che durerà meno di due anni. Chi usa buttare tutto in politica, evoca un asse trasversale tra dalemiani e berlusconiani per arginare lo strapotere prodiano. In realtà, il Professore non si rivelerà così potente come lo hanno dipinto e tutti i disegni crolleranno di fronte alla crisi mondiale.

 

La fusione con Capitalia è l’ultimo acuto, il canto del cigno di Profumo. Il boccone è pesante, forse troppo. Il nuovo gruppo Unicredit impiega anni per digerirlo, mentre nello stesso momento arrivano i guai dalla Germania. La bavarese Hypovereinsbank, conquistata con un blitz che fa storcere il naso (ancora una volta) a Bankitalia, è in difficoltà e si rivela piena di titoli marci, derivati e persino mutui subprime americani. Così, quel colosso bancario che era penetrato in Francia, nel Centro Europa ex comunista, in Russia, rischia di crollare sui suoi piedi d’argilla.

 

”Mr. Arrogance”, come era stato battezzato Profumo negli anni dei trionfi, farà atto di contrizione. Nel 2008, quando per salvare la banca lancia un aumento di capitale da 6,6 miliardi, ammette di aver fatto indigestione sottovalutando la crisi. Basti pensare che sotto la sua gestione Unicredit ha decuplicato i dipendenti, da 15 mila a 160 mila. “Abbiamo comprato banche in Ucraina e in Kazakistan, e minoranze in Germania, in Russia e Austria. E insieme a tutto questo abbiamo lanciato l’operazione su Capitalia. Col senno di poi abbiamo esagerato. Nessuno di noi aveva la percezione che fossimo arrivati al picco e che di lì a poco avremmo imboccato con sorprendente rapidità la china discendente. E questo, lo dico in tutta onestà, è stato il nostro primo errore”.

 

E’ testardo, certo, Alessandro Profumo, ma è un uomo onesto e la sua storia personale sta lì a dimostrarlo. Nato a Genova nel 1957, figlio di un ingegnere che ha un’azienda in Sicilia, trascorre l’infanzia a Palermo. Trasferitosi a Milano, incrocia gli ultimi bagliori gauchisti e incontra Mario Capanna. Inflessibile capo dei boy scout, conosce Sabina Ratti sui banchi del liceo Manzoni e si sposano appena ventenni. Lei cattolica di sinistra, figlia di un dirigente Eni, farà carriera nell’azienda dove lavorava il padre e poi si candiderà alle primarie del Pd in quota Rosy Bindi. Lui compie un duro percorso di studente lavoratore. La noia allo sportello di piazzale Loreto lo spinge a impegnarsi all’università, alla fine si laurea alla Bocconi. Nel frattempo cresce un figlio, gioca a basket, coltiva il tifo per l’Inter che lo avvicinerà a Massimo Moratti e Marco Tronchetti Provera. A trent’anni, il grande salto. La sua tesi di laurea sulle aziende di credito viene notata dalla McKinsey ed entra a far parte del club. Segue un passaggio alla Bain & Cuneo, poi alla Ras, la compagnia di assicurazioni della tedesca Allianz, dove incontra Lucio Rondelli che lo presenta a Enrico Cuccia e lo porta al Credito Italiano. La banca viene privatizzata nel 1993, cinque anni dopo, Rondelli lascia il timone a Profumo che, pancia a terra, ripulisce i conti e trasforma la nuova entità in un modello di efficienza, orientata al profitto, non più a operazioni di sistema. O almeno così si illude, perché, morto Cuccia comincia la guerra e anche il banchiere di mercato, come abbiamo visto, sarà costretto a schierarsi.

 

[**Video_box_2**]La crisi del 2008 è uno choc dal quale Profumo non si riprenderà. Lavora pancia a terra per salvare l’istituto, ma i soci (dalle fondazioni fino a BlackRock e al fondo di Abu Dhabi che colloca Luca di Montezemolo alla vicepresidenza) anziché ringraziarlo gli danno il benservito con una super liquidazione. A un uomo come lui, essere coperto di denaro non toglie dalla bocca l’amaro del potere. Finché arriva un’altra occasione. Il 18 marzo 2012 la Fondazione Mps lo indica come presidente al posto di Giuseppe Mussari. Prende la ramazza, la sua linea è pulizia a ogni costo. Si dice che abbia un ampio mandato anche dalla magistratura. Certo gode del rispetto di Mario Monti, presidente del Consiglio, che vara una linea di credito di 4 miliardi di euro (anche se non proprio a buon mercato) facendo leva sulle obbligazioni già introdotte da Giulio Tremonti (i Tremonti bond diventano Monti bond). Il grande scandalo viene ridimensionato, la madre di tutte le tangenti non si trova, ma il danno reputazionale distrugge la banca, al di là delle guerre di potere interne o della tenace resistenza autoconservativa della Fondazione che si era indebitata per sostenere la banca, violando la regola base.

 

Profumo e l’amministratore delegato Fabrizio Viola impongono una cura dimagrante. Il Monte si fa più piccolo e più snello, però continua a mancargli il capitale. Gli stress test della Banca centrale europea hanno bocciato Mps costringendolo a chiedere ancora soldi ai soci e al mercato. Il destino vuole che il colpo di grazia venga proprio da Draghi che questa volta non parla inglese, ma tedesco. A Siena si sentono abbandonati, lamentano l’assurdità dei criteri che considerano sicuri i derivati e ad alto rischio i prestiti, capovolgendo il mestiere della banca commerciale nata per fare credito non per giocare in borsa. Ma i buoi sono scappati.

 

Ferito, amareggiato, Profumo ammette: “Non siamo più in grado di garantire l’indipendenza del Monte” e sente che la sua missione si è conclusa. Un fallimento? Non proprio perché lascia un’azienda più sana, ma ancora una volta ha mancato l’obiettivo di fondo. Già, la strategia, sempre lei, la sindrome McKinsey.

 

L’assemblea fiume del 16 aprile che si è chiusa con l’addio di Profumo, è probabilmente l’ultima del Montepaschi dal 1472, anno della sua fondazione. Altre volte è andata in dissesto la banca nata per combattere l’usura attorno a Piazza del Campo. Ma adesso ha voluto fare il passo più lungo della sua gamba tenacemente incollata alla provincia toscana, non è riuscita a diventare nazionale e ha fallito anche la gestione del suo fallimento più grave: l’acquisizione dell’Antonveneta del 2007, con un indebitamento insostenibile.

 

Anche se il famigerato contratto “Alexandria”, la bomba esplosa in pancia che ha fatto deflagrare l’intera banca, sarà chiuso durante l’estate dalla controparte Nomura (si dice che costerà un miliardo di euro), è assai difficile che Mps resti indipendente. Il presidente della Fondazione, Marcello Clarich, ha confermato che per trovare il nuovo presidente “è stato incaricato un cacciatore di teste” e che “ci sono già dei nomi”. Il Monte scomparirà nelle braccia di un socio più forte. Chi? Si parlava del Banco di Santander, cioè la banca spagnola che ha turlupinato Mussari vendendogli Antonveneta a un prezzo da strozzo (9 miliardi di euro, tra due e tre miliardi oltre le valutazioni di mercato). Sarebbe una beffa nella beffa. Molto più probabile è Bnl. Un grande ritorno. Il matrimonio si doveva fare addirittura un decennio fa, adesso la ex banca del Tesoro è in mano al gigante francese Bnp.

 

L’italianità, evocata più volte, non conta più? Ora si vuole portare in Italia il capitale straniero. Per il momento è stato un compra compra; forse domani si creeranno anche posti di lavoro. E a questo pensa il nuovo Profumo che si mette in proprio: “Vorrei costruire una struttura che fornisca capitali e assistenza a imprenditori medi che vogliano crescere e diventare grandi”, spiega. Insomma, non va ai giardinetti, si trasforma in imprenditore della finanza. Non sarà più Alessandro il grande, ma i rovesci della fortuna non hanno piegato l’ambizione. Gli altari di un tempo sono lontani e forse ha capito come gira il mondo, certo è che non ha intenzione di mangiare la polvere.

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