Calogero Mannino (foto LaPresse)

Mannino ci spiega come la riforma Orlando allunga il suo calvario

Annalisa Chirico

L'ex ministro Dc, assolto in primo grado dopo 24 anni di processo, non potrà di fatto usufruire del rito abbreviato in appello

Roma. “Nel migliore dei casi, dovrò attendere ancora tre anni prima di conoscere l’ennesima sentenza. E’ l’eternità alla quale vogliono condannarmi”, commenta così Calogero Mannino, quello vero, raggiunto telefonicamente dal Foglio. Assolto in primo grado nel processo sulla presuntiva trattativa tra pezzi dello stato e della mafia, l’ex ministro della Democrazia cristiana, che ha superato il giro di boa dei 78 anni, fa i conti con un “pasticcio” contenuto nella riforma del processo penale voluta dal Guardasigilli Andrea Orlando. A ben vedere, la questione riguarda non soltanto lui ma centinaia di processi aperti in tutta Italia. A Palermo Mannino ha richiesto il rito abbreviato che, com’è noto, si caratterizza per l’amputazione della fase dibattimentale e la definizione del giudizio, allo stato degli atti, nel corso della stessa udienza preliminare. La ratio è la seguente: l’imputato rinuncia a una buona dose di garanzie per ottenere, in cambio, tempi più celeri e lo sconto di un terzo in caso di condanna. Nel novembre 2015 il gup Marina Petruzzella assolve Mannino per non aver commesso il fatto. Tuttavia l’odissea giudiziaria, che tra corsi e ricorsi inquisitori lo insegue dal lontano 1991, non si conclude dacché la procura generale ricorre in appello. Nel giro di pochi mesi si sarebbe arrivati a un verdetto di secondo grado ma lo scorso agosto entra in vigore la riforma Orlando che, tra le varie innovazioni, interviene sull’articolo 603 del Codice di procedura penale.

 

Il terzo comma, nella versione attuale, recita testualmente: “Nel caso di appello del pubblico ministero contro una sentenza di proscioglimento per motivi attinenti alla valutazione della prova dichiarativa, il giudice dispone la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale”. En d’autres mots, quella che prima era una facoltà è diventata un obbligo: il magistrato è tenuto a disporre la riapertura completa dell’istruttoria. “Vanno riascoltati cinquantasei testimoni – dichiara l’ex ministro al Foglio – Con questa assurda previsione, il rito abbreviato, frutto di una libera scelta dell’imputato a suo rischio e pericolo, assume i caratteri del rito ordinario. Sarebbe il caso di dire che per lo mezzo ci sta il diavolo. L’imputato rinuncia di fatto a un grado di giudizio per avere tempi più brevi e un’eventuale riduzione di pena, ma alla fine in appello non può difendersi né citare testi a discolpa. Io resto così sotto la durlindana di Orlando nell’opera dei pupi”. Lo scorso 13 settembre, nell’udienza di apertura in seconda istanza, i sostituti procuratori generali Giuseppe Fici e Sergio Barbiera sollevano una questione di legittimità costituzionale: la norma, riscritta in tal guisa, lederebbe il diritto alla difesa e alla ragionevole durata del processo. L’accusa chiede di “escludere che l’articolo in questione si applichi anche ai processi celebrati in primo grado nella forma del rito abbreviato. Pertanto in questo giudizio a carico di Mannino non deve necessariamente procedersi ad alcuna rinnovazione istruttoria”.

 

Una mossa inaspettata alla quale si associa la difesa. “Hanno scritto male le norme con l’effetto che la riforma si ritorce contro gli stessi diritti di difesa”, dichiara Nino Caleca che con l’avvocato Grazia Volo difende l’ex ministro. “A voler azzardare una previsione – commenta Mannino – direi che intorno al 2021 potrò forse considerarmi libero da questo processo unico che mi insegue, ininterrottamente, da quando i primi cosiddetti pentiti, all’incirca trent’anni or sono, mossero false accuse nei miei confronti. E’ materia da guinness dei primati, lei non trova?”. Una punta di ironia che sfocia in un sorriso amaro.

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