Il presidente dell'Anac, Raffaele Cantone (foto LaPresse)

Se l'Anac "esonda" la colpa non è dell'Anac

Carlo Stagnaro

L’Italia sta cambiando grazie alla medicina delle riforme. Ma finché resta convalescente, se non proprio malata, non dovrebbe lamentarsi del medico

Se l’Anac esonda, il problema non sta nell’eccesso di offerta, ma nella domanda emergente di efficaci misure anticorruzione. Il dibattito innescato sul Foglio dallo scambio tra Sabino Cassese e Raffaele Cantone offre pertanto l’occasione di tracciare una linea. Tre premesse sono necessarie. Primo: l’Anac potrà essere giudicata efficace se riuscirà a prevenire, prima ancora che contrastare, il fenomeno corruttivo. Secondo: non conta solo la corruzione effettivamente praticata, ma anche la sua percezione, in quanto essa influisce sul capitale sociale del paese. Terzo: una funzione cruciale dell’Anac è quella di intervenire tramite soft law e nudge, promuovendo le best practice.

 

 

 

Bisogna allora porsi due domande: nel triennio trascorso dalla sua istituzione, il bilancio dell’Anac è positivo? Ed è vero che Cantone ne ha dilatato i confini a dismisura? Trarre le somme è complesso e forse prematuro: non esiste una misura oggettiva della corruzione, perché l’unica evidenza che abbiamo è sui casi accertati. Inoltre una missione cruciale di Anac, la deterrenza, è difficilmente rilevabile. Un possibile indicatore è l’indice di Transparency International, pur con tutti i suoi limiti metodologici: tra il 2014 e il 2016, il punteggio dell’Italia è cresciuto da 43 a 47. Abbiamo anche una certa evidenza anedottica: per esempio, è andata migliorando la trasparenza delle Amministrazioni pubbliche e sono state individuate (e talvolta risolte) situazioni di potenziale conflitto di interesse, inamovibilità dei dirigenti pubblici e cumulo degli incarichi. Certo, l’approccio di Anac è forse ancora troppo burocratico e formalistico, ma è difficile negare i progressi. Resta molto da fare, non solo sul fronte della corruzione in senso stretto, ma anche per limitare i comportamenti, diciamo, inopportuni: come le tante amministrazioni e agenzie pubbliche che fanno lobbying per contrastare i provvedimenti sgraditi o addirittura impedirne l’attuazione (come hanno persuasivamente argomentato Francesco Giavazzi e Giorgio Barbieri nel loro “I signori del tempo perso”).

 

Per quanto riguarda l’ubiquità di Cantone, essa è legata a vari aspetti. Sovente sono le stesse amministrazioni o la politica a tirarlo per la giacchetta  e assegnarli ruoli eccentrici, e non di rado a sproposito. D’altronde, un parere terzo non fa mai male, specie in un settore pubblico segnato da un prolungato blocco del turnover, capitale umano non sempre adeguato e una grave carenza nella rotazione dei ruoli. Dal canto suo, il presidente dell’Anac ha fatto largo ricorso al potere di segnalazione: talvolta avanzando proposte non integralmente condivisibili (per esempio è lecito avere più di un dubbio sull’utilità di introdurre soggetti esterni nelle commissioni universitarie) ma comunque interpretando in modo proattivo il suo lavoro di contrasto e prevenzione.

 

C’è infine un altro tema. La letteratura sull’economia della corruzione mostra chiaramente che tale fenomeno è maggiormente diffuso nei casi in cui il pubblico è pervasivo, le procedure sono opache e il diritto confuso e incerto. E’ evidente che Cantone non può sostituirsi al legislatore nello sciogliere questo nodo gordiano, che richiederebbe un ripensamento ancora più incisivo della pubblica amministrazione e una politica di privatizzazioni e liberalizzazioni a 360 gradi. Egli agisce nel contesto dato: l’onnipresenza di Cantone è resa necessaria dall’onnipotenza dell'interventismo pubblico. Quanto più è estesa la discrezionalità burocratica, tanto più la vigilanza dell’Anac dovrà essere occhiuta.

L’Italia sta cambiando grazie alla medicina delle riforme. Ma finché resta convalescente, se non proprio malata, non dovrebbe lamentarsi del medico.

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