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La mafia a Roma e il grillismo al governo. Storia parallela di due bluff

Salvatore Merlo

La piovra non c’è. Perché la grande narrazione grillina che cade aiuterà a mettere in luce l'inadeguatezza di chi amministra la città

Roma. “Spero che non c’hai la pistola”, scherza l’agente di custodia, che si esprime in romanesco bonario, mentre superiamo i cancelli blindati dell’aula bunker, e senza nemmeno passare la giacca ai raggi X, malgrado i “Bip” del metal detector. E si capisce che pure gli agenti penitenziari si sono accorti che la mafia, quella dei kalashnikov e del tritolo, di Riina e di Provenzano, degli omicidi e dei cadaveri sciolti nell’acido, qui non c’è. Così, ad alludere alla Sicilia di Mario Puzo e del Padrino, alla tensione emotiva e al pericolo criminale, alla letteratura e alla mafiologia, ci sono solo il caldo, la polvere, le sterpaglie, il casermone color pidocchio e lo squallore calligrafico di San Basilio, lo sgorbio di periferia romana in mezzo al quale si estende, come una gigantesca macchia, questa propaggine carceraria di Rebibbia.

 

Il presidente della Decima sezione, Rosanna Ianniello, impiega quasi un’ora per leggere il lunghissimo dispositivo di condanna, che alla fine somma 287 anni e 4 mesi per quarantuno dei quarantasei imputati. Ma è sul finale che, a un certo punto, mentre il giudice legge, si avverte ben distinta come una scarica elettrica, un’onda che attraversa l’aula, fa vacillare il pubblico: “E’ caduto il reato di associazione mafiosa!”, “hai sentito?”, “è caduto!”, comincia a dire qualcuno, dando il via a un pissi pissi accelerato, un formicolare isterico. “Chiedi all’avvocato”, “manda un sms a Ielo”, “ma le agenzie che dicono?”. E i cronisti giudiziari si ritrovano improvvisamente appiccicati l’uno all’altro, come le mosche, l’uno sull’altro, un alveare: “Nun ce sta la mafia. Non c’è!”.

 

Virginia Raggi, il sindaco, è in prima fila, scortata dal portavoce Teodoro Fulgione. Le mani dietro la schiena, i solchi delle occhiaie, il volto teso. Aveva una dichiarazione pronta per le telecamere, ma il copione è saltato, come gran parte degli hashtag su Twitter, tutta una coreografia che i Cinque stelle avevano studiato per le agenzie e i social media: la mafia, la mafia. Grillo l’aveva detto nei giorni scorsi ai consiglieri comunali del M5s, “Dobbiamo insistere sulla mafia. Dobbiamo concentrarci su Ostia”, il municipio che per effetto di questo processo alla mafia romana è stato sciolto e commissariato. A Ostia si vota in autunno. Ma la mafia non c’è. E adesso?

 

Quando i giudici lasciano l’aula, anche la sindaca, rigida e minuta, si allontana a piccoli passi veloci. Sparisce dietro una porticina per alcuni minuti, si consulta con qualcuno, fa una telefonata, e poi finalmente riappare. “Ringraziamo le forze dell’ordine…”, dice con cadenza monotona, “chiaramente questa è una feritaaaa… molto profonda nel tessutooooo… della città. I romani lo sanno bene… Dobbiamo ricucire i lembi di questa ferita…”. Le chiediamo se non crede che questa inchiesta, con la parola mafia (adesso evaporata), abbia favorito la sua elezione. E qui Raggi s’inceppa per un attimo. Lo sguardo remoto, cosmico, tibetano.

 

Insomma, le chiediamo: non pensa di aver vinto anche grazie alla parola mafia? E allora Raggi si scuote, e per un attimo sembra riaversi, sembra cercare un suo filo perduto chissà dove. Ma è il filo di una cantilena nasale: “Credo che questo sia un momento molto importanteeeeee per la città di Romaaaaa. E dobbiamo trarne tutti le conseguenzeeeee. E regolarci come dobbiamooooo… Grazie”. Sì va bene, scusi sindaco, ma lei ha fatto la campagna elettorale su Mafia Capitale, ora la mafia non c’è più: non ha niente da dire? “Grazie, arrivederci”. E la piccola sindaca si allontana, zampetta verso l’automobile con la scorta e i lampeggianti. Sembrano i titoli di coda di un film. Quasi si avverte un principio di dissolvenza.

 

Finisce così, a quasi due anni dalla caduta di Ignazio Marino e dal trionfo della rivoluzione grillina. La mafia non c’era, e il sindaco eletto sull’onda di un’emozione e di un malumore collettivo adesso non sa più cosa dire. C’erano i corrotti, i malversatori, i cravattari, i delinquenti odiosi, i criminali dell’appalto e della ricotta. Tutto vero. Tutti condannati, vent’anni a Carminati, diciannove a Buzzi, undici a Gramazio, dieci a Panzironi, sei a Coratti… Ma è nel cerchio di fuoco della mafia che è saltata la politica di questa città, è intorno alla parola mafia che si sono composti libri e titoloni persino del New York Times, ed è dal cilindro del 416 bis che il 22 giugno del 2016 è saltato fuori il trionfo elettorale di Virginia Raggi e del Movimento cinque stelle, tra rabbia e sberleffi, pernacchie e ghigliottine, vaffanculi e supplì. Tutto un impasto imprendibile, un intreccio esasperato in cui si è consumato il processo pubblico, di piazza, al degrado e alla decadenza di Roma, alla monnezza e alla clientela pluriennale, all’incuria amministrativa e al grottesco dominante nella vita pubblica capitolina.

 

Ieri il Movimento cinque stelle, e persino quella centrale della propaganda internettiana che è il Blog di Grillo, si è scoperto impreparato, improvvisamente afasico, fuori tempo, come stordito. Si riprenderanno, nel partito di Casaleggio. Ma il colpo è duro, e non sfugge a nessuno. Prima di questa sentenza, ogni cosa a Roma era colpa della mafia, del “sistema”, della piovra della Cosa nostra che tutto teneva e tutto controllava: persino gli incendi che in questi giorni devastano la periferia, e la pineta di Ostia. Ma se la piovra non c’è, se la mafia è ricotta, se il 416bis è una semplice associazione a delinquere, allora anche su quegli incendi comincia a pesare non più il sospetto della criminalità organizzata, quella dei picciotti e del complotto d’interessi, ma il sospetto dell’inadeguatezza di chi amministra: quando sarà nominato dal comune il capo della Protezione civile di Roma? E quando il sindaco presenterà il piano emergenza che è scaduto nel 2008?

 

Fuori dall’aula bunker, superato il secondo cerchio di mura, c’è la monnezza, arredo urbano che sempre lì sta, tra i palazzoni dell’edilizia popolare e gli antichi casali abbandonati di questa periferia anzitempo strappata alla vita agra del feudo pontificio. Escono gli imputati a piede libero. C’è Luca Odevaine, cravatta e scarpe a punta, parlotta torvo con i suoi difensori, è stato condannato a sei anni, sembra cotto dal sole e dalla preoccupazione. I cronisti giudiziari raggiungono le loro motociclette, vanno a scrivere. Sciamano i volti del talk show serale e mattutino, i mafiologi, gli esperti, i tribuni della carta stampata, gli scrittori di fiction e i romanzieri. C’è anche Paolini, il disturbatore televisivo, quello che si mette davanti alle telecamere del telegiornale, quello che Paolo Frajese una volta prese a calci nel di dietro: “La mafia, la mafia, la mafia”. La mafia dov’è? Non è incongruo, Paolini. Il circo toglie le tende. Due anni di strepiti finiscono qua. Fino alla prossima volta.

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  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi erasmiana a Nottingham. Un tirocinio in epoca universitaria al Corriere del Mezzogiorno (redazione di Bari), ho collaborato con Radiotre, Panorama e Raiuno. Lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.