Raffaele Cantone (foto LaPresse)

Elogio dei magistrati che scendono in campo contro la cultura del sospetto

Claudio Cerasa

Dal caso Woodcock al codice antimafia. Le “perplessità” di Cantone, le sciagure della giustizia mediatica, chi si ribella

Giovanni Falcone ripeteva spesso che la cultura del sospetto non è l’anticamera della verità ma è l’anticamera del khomeinismo e a venticinque anni esatti dalla morte del giudice quell’espressione, e quella considerazione, è tornata a essere attuale in questi giorni, per almeno due ragioni solo apparentemente distanti l’una dall’altra: da un lato il caso delle indagini su Woodcock, divenute improvvisamente la parte più gustosa dell’inchiesta su Consip, dall’altro il caso del nuovo codice antimafia, in discussione in questi giorni al Senato, che estende alla lotta contro la corruzione la normativa utilizzata per combattere i reati a sfondo mafioso.

 

Le due storie sono diverse l’una dall’altra, naturalmente, ma entrambe hanno un punto di contatto evidente che riguarda una scintilla improvvisa che i due casi hanno generato: una crescente, progressiva e significativa rivolta contro la trasformazione del nostro paese in una repubblica giudiziaria e contro l’idea che l’Italia debba essere inevitabilmente governata da una Costituzione immateriale in cui dominano cultura del sospetto e magistrati ayatollah. E la novità molto importante è che le voci che cominciano a levarsi in modo misurato ma comunque deciso contro la cultura del sospetto non arrivano solo dalla politica, o da una parte risicata dell’opinione pubblica, ma cominciano finalmente ad arrivare, seppure con sfumature diverse, anche dal mondo della magistratura, dove a poco a poco iniziano a essere diversi i magistrati che a vario titolo, negli ultimi tempi, hanno scelto di schierarsi contro la deriva della giustizia spettacolo.

 

Non tutti arriveranno a utilizzare la stessa onestà di pensiero messa in campo dal nostro caro professor Giovanni Fiandaca, che da mesi ritiene la riforma del codice antimafia “frutto di un populismo penale onnivoro, che strumentalizza politicamente la lotta alla corruzione come spot elettorale”, ma è un dato di fatto che una parte della magistratura veda oggi la necessità di far sentire una voce e una linea diversa rispetto a quella messa in campo negli ultimi mesi da alcuni grandi professionisti della giustizia spettacolo come Antonino Di Matteo e Piercamillo Davigo. E così come in politica e in economia l’arrivo del protezionismo trumpiano alla Casa Bianca e le preoccupazioni sul mercato europeo legate alle conseguenze della Brexit hanno avuto il merito di far risvegliare da un lungo torpore culturale il partito della globalizzazione, allo stesso modo il protagonismo mediatico incarnato nelle figure di grandi giustizialisti come Di Matteo, Davigo e Woodcock ha avuto il merito di scatenare una reazione uguale e contraria in una buona parte della stessa magistratura.

 

Si potrebbe citare il caso del capo dell’Anm, Eugenio Albamonte, proveniente dalla procura di Roma, che da mesi segue una linea opposta a quella portata avanti dal suo predecessore Piercamillo Davigo. Si potrebbe citare il caso della procura di Roma i cui magistrati, guidati da Giuseppe Pignatone, provando a far dimenticare la fiction di Mafia Capitale, hanno scelto di fare quello che poche procure avevano fatto in passato, ovvero indagare sul metodo della giustizia spettacolo messa in campo da un’altra procura (caso Woodcock). Si potrebbe citare anche il caso di Raffaele Cantone, che, dopo aver pestato duro alcuni anni fa contro la politicizzazione della magistratura, ha scelto in questi giorni di dare una sveglia alla politica spiegando come l’estensione del codice antimafia ai reati sulla corruzione (estensione non a caso suggerita da tempo dalla coppia del gol Davigo-Di Matteo) sia un errore madornale. 

 

 

Cantone ha detto al Mattino di essere “molto perplesso per quanto riguarda l’estensione della normativa antimafia alla corruzione perché credo che si tratti di due istituti diversi e si rischia di snaturare un sistema di prevenzione che ha un suo carattere eccezionale legato alle mafie, credo che sia poco opportuno inserirlo all’interno dell’anticorruzione ma ovviamente è il Parlamento a fare le valutazioni” e nell’ambito di un ragionamento più articolato ha ricordato che utilizzare l’antimafia come un brand è una sciagura tipica di una repubblica giudiziaria. “Questi professionisti spesso sono quelli che urlano di più e brandiscono strumentalmente la lotta alla mafia per altri fini. Questi signori, alla lunga, si stanno rivelando il peggior nemico della vera antimafia, perché consentono generalizzazioni che fanno di tutta l’erba un fascio”.

 

Sono segnali piccoli, forse, che indicano però un risveglio possibile di un pezzo di magistratura cresciuta più con il mito di Giovanni Falcone che con il mito di Antonio Ingroia. L’Italia, per capirci, è piena di magistrati come Francesco Lo Voi, arrivato tre anni fa alla guida della procura di Palermo anche per arginare la tendenza di alcuni magistrati a trasformare i processi in talk-show. Di magistrati come Giovanni Canzio, primo presidente della Cassazione che presto sarà sostituito da Giovanni Salvi, che proprio durante l’inaugurazione dell’anno giudiziario criticò “le distorsioni del processo mediatico”. Di magistrati come Giovanni Melillo, attuale capo di gabinetto del ministro della Giustizia, che meriterebbe di guidare la procura di Napoli per portare un po’ di cultura garantista in una delle procure più barcollanti d’Italia. Di magistrati come Margherita Cassano, attuale presidente della Corte d’appello di Firenze che nel giorno della sua nomina, un anno e mezzo fa, lanciò un appello ai suoi colleghi per liberarsi dalla stretta della giustizia spettacolo applicando senza deroghe il classico canone di garanzia in dubio pro reo. O di magistrati, come ha raccontato qualche settimana fa sul Foglio Luciano Capone, come il nuovo numero uno di Trani, Antonino Di Maio, che dopo gli anni d’oro della procura a vocazione mediatica è arrivato promettendo di combattere la giustizia spettacolo e tutti quei metodi di indagine finalizzati a essere visibili più all’esterno che all’interno delle aule dei tribunali.

 

 

L’Italia è piena di magistrati che fuggono dai talk-show, che scappano dalla repubblica giudiziaria, che combattono la logica della gogna e che si sentono estranei dalla linea del fango quotidiano. Quell’Italia esiste, probabilmente è maggioritaria, ma è un’Italia che mai come oggi avrebbe un bisogno matto di alzare la voce e farsi sentire. Raffaele Cantone ha ragione a dire che le indagini sul caso Consip saranno importanti perché, “a prescindere da tutte le altre considerazioni, il caso credo che farà scuola per l’importanza che ha assunto e sarà un precedente per orientare futuri comportamenti di tutti gli attori processuali”. Ma a prescindere dall’esito delle indagini su Woodcock una verità oggi va affermata e persino urlata. Mai come oggi essere equidistanti tra la buona giustizia e la giustizia spettacolo non significa essere neutrali, significa semplicemente essere complici di un grande sfascio italiano. Noi da oggi, nel nostro piccolo, proveremo a raccontare chi prova, anche tra i magistrati, a ribellarsi all’Italia della gogna, della giustizia spettacolo e del fango quotidiano. Se avete segnalazioni di storie da raccontare scriveteci qui: [email protected].

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.