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Perché i magistrati politici sono molto più pericolosi dei politici magistrati

Claudio Cerasa

La legge approvata dalla Camera sul rapporto tra procure e politica non basta per risolvere un dramma italiano: il giudice non deve solo essere imparziale ma deve anche apparirlo. Il caso Trani e altri esempi

Con 211 sì, 2 no e 29 astenuti, giovedì scorso la Camera dei deputati ha approvato un disegno di legge dal titolo molto ambizioso: “Disposizioni in materia di candidabilità, eleggibilità e ricollocamento dei magistrati in occasione di elezioni politiche e amministrative nonché di assunzione di incarichi di governo nazionale e negli enti territoriali”. Il testo, che ora passerà al Senato, dovrebbe essere, nelle intenzioni, una prova di forza del Parlamento per rispondere anche a una lista di raccomandazioni inviata due mesi fa dall’organo anticorruzione del Consiglio d’Europa, che ha rimproverato l’Italia di non essere sufficientemente attrezzata (ma va) per limitare la presenza dei giudici in politica: “La questione dell’attività politica dei magistrati deve essere affrontata in tutti i suoi aspetti a livello legislativo, dato il suo impatto sui princìpi fondamentali di indipendenza e imparzialità della magistratura”.

 

 

 

La legge approvata alla Camera non vieta ai magistrati di fare politica, come qualcuno ha provato a far credere, ma prevede che il magistrato che si presenta alle elezioni dovrà essere in aspettativa da almeno 6 mesi e non potrà candidarsi nella circoscrizione (o nell’ambito territoriale) elettorale dove ha svolto le funzioni nei 5 anni precedenti, mentre non è previsto nessun divieto per i magistrati che scelgono di candidarsi alle elezioni se si sono dimessi o sono andati in pensione almeno da due anni.

 

Non c’è corrente della magistratura di sinistra che non ammetta che l’azione penale debba essere sempre affiancata da un’azione uguale di resistenza costituzionale. In altre parole: chiunque venga considerato
dalla magistratura
una minaccia ai valori incarnati
dalla Costituzione diventa un bersaglio
a prescindere dai reati che potrebbe
aver commesso

La legge dunque interviene in maniera parziale su un problema che chiunque abbia a cuore la Costituzione dovrebbe considerare prioritario: la necessità per i giudici e i magistrati di rispettare il principio di terzietà imposto dall’articolo 111 (“Il magistrato non deve solo essere ma deve anche apparire imparziale”, dice Carlo Nordio). La discussione intorno al disegno di legge approvato in Parlamento rischia però di portarci fuori strada e di farci perdere quello che è il vero problema dell’intreccio tra politica e magistratura. La partecipazione dei magistrati alla vita pubblica è un problema prioritario e bisogna essere parecchio in malafede per capire che un magistrato che deve essere e apparire imparziale una volta che scende in campo nel mondo della politica compromette gran parte del lavoro svolto nel passato: se Tizio si candida con un partito, come si fa a non pensare che la sua attività da magistrato o da giudice non sia stata viziata in modo irreparabile da un pregiudizio di fondo? E se quel magistrato si candida contro i soggetti politici che ha indagato nel passato, come la mettiamo?

 

Da un certo punto di vista, senza voler essere neppure troppo paradossali, i magistrati politicizzati che scendono in campo e si buttano in politica andrebbero non limitati ma forse persino moltiplicati: un giudice politicizzato è meno pericoloso se si butta in politica (al massimo spara fregnacce), mentre diventa più pericoloso se non fa il politico e si traveste da magistrato o giudice super partes, pur essendo culturalmente schierato e in un certo senso politicamente militante. Il problema è tutto qui, in fondo, e non c’è nessun ddl che possa risolvere un problema che non è di carattere legislativo. Ma che è di carattere culturale. Più che concentrarsi sui magistrati che entrano in politica occorrerebbe infatti concentrarsi sui magistrati che fanno politica attraverso l’esercizio dell’azione penale e che interpretano il proprio ruolo in un modo pericolosamente distorto, seguendo più il modello degli ayatollah che quello dei sacerdoti. Nel mondo della magistratura il modello del sacerdote, ovvero del pm che si occupa di combattere l’illegalità e non l’immoralità evitando di portare avanti azioni che potrebbero danneggiare il principio di terzietà incarnato dal proprio ruolo, prevale nettamente sul modello dell’ayatollah, ovvero sul modello del magistrato tribuno che tende a esorbitare da quegli spazi fisiologici che dovrebbero in teoria spettare al potere giudiziario. Ma nonostante questo è sufficiente che un qualche ayatollah delle procure tradisca il suo credo politico per delegittimare un’intera categoria.

 

 

“Il populismo penale sul piano specifico della giurisdizione – ha scritto magnificamente la scorsa settimana sul Foglio il professor Giovanni Fiandaca – è un fenomeno che ricorre tutte le volte in cui il magistrato pretende, anche grazie a una frequente esibizione mediatica, di assurgere ad autentico rappresentante o interprete dei veri interessi e delle aspettative di giustizia dei cittadini, e ciò in una logica di concorrenza-supplenza e in alcuni casi di aperta contrapposizione rispetto al potere politico ufficiale. Non è un caso, allora, che questa figura di magistrato-tribuno, oltre ad impersonare di fatto un ruolo ibrido di attore giudiziario-politico-mediatico, finisca col cedere alla tentazione di entrare in politica e talvolta col dare persino vita a movimenti antisistema di impronta personale”.

 

La questione in fondo è tutta qui ed è questa una delle ragioni che rendono l’Italia, per gli investitori stranieri, un paese meno attrattivo rispetto a quello che potrebbe essere: il fatto che in Italia esista una magistratura fortemente politicizzata (do you know le correnti della magistratura?) che garanzia dà ai cittadini di essere giudicati in modo terzo e imparziale, sulla base cioè di indizi processuali e non sulla base di pregiudizi ideologici? L’utilizzo della giustizia come lotta di classe è un principio non astratto ma reale e non c’è corrente della magistratura di sinistra che non ammetta che l’azione penale debba essere sempre affiancata da un’azione uguale di resistenza costituzionale. In altre parole: chiunque venga considerato dalla magistratura una minaccia dei valori incarnati dalla Costituzione diventa un bersaglio a prescindere dai reati che potrebbe aver commesso. Mauro Mellini, bravo e provocatorio avvocato romano, fondatore dei Radicali, autore di un formidabile libro sulla giustizia scritto per Bonfirraro editore, “Il Partito dei Magistrati”, ha sintetizzato il problema con una formula efficace: l’interpretazione evolutiva del diritto.

 

 

Scrive Mellini: “Dal punto di vista normativo-culturale, il concetto di ‘interpretazione evolutiva’ per i magistrati rappresenta un modo indiretto per travalicare l’alveo della propria funzione giurisdizionale e per occupare uno spazio proprio della lotta politica e del potere legislativo. E sotto molti punti di vista, l’interpretazione evolutiva esprime una precisa tendenza del pm: quella di voler esercitare, in più circostanze, la propria attività di supplenza”. Il diritto del giudice di essere guidato nella valutazione di un reato non soltanto da una prova provata ma anche da una convinzione etica è un fatto che prescinde dall’attività esplicitamente politica dei magistrati. E il dramma del sistema politico italiano è che spesso sono gli stessi che combattono a parole la politicizzazione della magistratura a offrire alla magistratura strumenti per poter agire in modo discrezionale, e dunque a volte anche politico. Il problema della politicizzazione della magistratura (chiedetelo a un qualunque imprenditore) è più grave (neologismo) della magistraturizzazione della politica e fino a quando nelle procure italiane l’appartenenza a una corrente verrà considerata un criterio fondamentale per poter fare carriera (persino più del merito) continueremo ad avere magistrati ayatollah, pronti a confondere moralità e legalità e pronti a tradire una vecchia lezione, ormai dimenticata, consegnata nel 1991 da Giovanni Falcone nel corso di una storica audizione a Palazzo dei Marescialli. “Io posso anche sbagliare, ma sono del parere che nei fatti, nel momento in cui si avanza un’accusa gravissima riguardante personaggi di un certo spessore o del mondo imprenditoriale e tutto quello che si vuole... o hai elementi concreti oppure è inutile azzardare ipotesi indagatorie, ipotesi di contestazione di reato che inevitabilmente si risolvono in un’ulteriore crescita di prestigio nei confronti del soggetto che diventerà la solita vittima della giustizia del nostro paese”. Prendete il caso Trani, il caso Consip e molti altri processi più forti sul piano mediatico che sul piano processuale, rileggete le parole di Falcone e provate a vedere l’effetto che fa, tenendo da parte con voi l’articolo 111 della Costituzione ogni processo deve svolgersi davanti a un giudice terzo e imparziale. Domanda retorica: siamo sicuri che in Italia sia sempre così?

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.