Devastati da Mani Pulite

Giovanni Fiandaca

Non ha sconfitto la corruzione, ha alimentato il populismo e ha legittimato la moralizzazione pubblica per via giudiziaria. Eccola l’eredità di Tangentopoli

Che vi sia, a un quarto di secolo ormai di distanza, l’esigenza di una approfondita rivisitazione storico-critica della cosiddetta rivoluzione giudiziaria di Mani Pulite, presumo che non siamo in pochi a pensarlo. E’ vero che il venticinquesimo “anniversario” ha già sollecitato qualche rievocazione giornalistica, ma siamo ancora lontani dall’avere aperto quella discussione pubblica vera, finalmente emancipata da ipocrisie moralistiche e pudori politicamente corretti, che sarebbe necessario una buona volta avviare. Non soltanto per comprendere meglio quel che avvenne allora, ma anche per verificare se alcune persistenti patologie possano ancora essere fatte risalire a quel recente passato. Tra queste patologie, alludo in particolare a quella perdurante nevrosi politico-istituzionale che continua a provocare conflitti tra politica e magistratura: e fa sì che la stessa politica odierna subisca forti condizionamenti da un’azione giudiziaria che tende a tutt’oggi a realizzare invasioni di campo in ambiti politicamente rilevanti e, nello stesso tempo, a esercitare un controllo di legalità di fatto esorbitante da quegli spazi fisiologici che dovrebbero in teoria spettare al potere giudiziario.

 

Un bilancio per comprendere quel che avvenne allora e verificare quali patologie possano essere fatte risalire a quel recente passato

Non intendo procedere a una revisione critica della contabilità giudiziaria (rapporti numerici tra indagati, incarcerati, scarcerati, prosciolti, condannati o assolti ecc.) riportata di recente in più di un intervento rievocativo. Rinviando ad una verifica già effettuata su queste colonne (cfr. l’articolo di Maurizio Crippa del 17 febbraio scorso), escluderei infatti che a orientare la rivisitazione di Mani pulite possa essere soltanto un approccio di tipo quantitativo circoscritto al concreto esito delle indagini e dei processi celebrati in quel periodo. Il discorso è più ampio e complesso, dal momento che ben trascende la conta ragionieristica delle condanne e riguarda piuttosto, com’è facile intuire, due questioni di fondo assai spinose: l’una concernente i rapporti sistemici tra giustizia e politica; l’altra relativa ai limiti di compatibilità tra una guerra a tutto campo alla corruzione e un pur equilibrato rispetto dei principi del garantismo penale.

 

L’affossamento per via giudiziaria del precedente sistema basato sui partiti nati dalla Resistenza, non è stato soltanto un terremoto politico: è stato anche un trauma costituzionale, e ciò per il motivo evidente che la criminalizzazione di quasi un intero asseto politico-governativo esula dalle funzioni tipiche della giurisdizione penale. Ora, questa traumatica rottura dell’equilibrio tra i poteri avrebbe potuto trovare una ragione giustificatrice, beninteso secondo una unilaterale logica utilitaristica di risultato (altro è il discorso guardando da una prospettive più ampia, comprensiva di tutti i valori, principi ed equilibri anche costituzionali in giuoco), ad una condizione: a condizione cioè che la macchina da guerra repressiva riuscisse davvero a sortire come effetto una durevole sconfitta della corruzione pubblica. Cosa che però, come tutti sappiamo, non è invece avvenuta. E lo riconoscono apertamente persino magistrati protagonisti di allora, come Piercamillo Davigo il quale, invero, non si stanca di denunciare che la corruzione è andata estendendosi in maniera più capillare ed è andata via via assumendo forme nuove. Viene spontaneo, allora, chiedersi: valeva la pena che la repressione penale spazzasse via un ceto politico che, riguardato col “senno di poi” – e tanto più se messo a confronto con le poco felici performances almeno di alcuni dei protagonisti delle stagioni politiche successive – , ci appare forse meno incapace e indegno di quanto in quel momento non sembrasse? E valeva altresì la pena che la repressione, per di più, assumesse maniere così drastiche da perdere di vista che la lotta alla corruzione non avrebbe potuto in ogni caso giustificare un utilizzo più che disinvolto di carcerazioni preventive finalizzate alla collaborazione giudiziaria né, a maggior ragione, logiche inquisitorie suscettibili di accrescere il rischio (forse non sempre astratto) di reazioni suicidiarie? Secondo una stima recente relativa al periodo 1992-1994, i suicidi di persone coinvolte dalle indagini ammonterebbero al numero tutt’altro che irrilevante di 32!

 

Il frutto di quell'epoca, oggi, è un'azione giudiziaria che tende a realizzare invasioni di campo in ambiti politicamente rilevanti

Gli ostinati difensori di Mani Pulite potrebbero, nonostante tutto, obiettare che la rivoluzione giudiziaria fu oggettivamente necessitata tanto nel suo ambito di estensione, quanto nelle sue risolute modalità di attuazione. Ma solo una ingenuità puerile o un pregiudizio favorevole contiguo al fanatismo possono indurre a crederlo davvero: in realtà, quanto e come intervenire la macchina giudiziaria non può mai deciderlo da se stessa, in modo automatico e impersonale; lo decidono, con ampia discrezionalità di fatto se non di diritto, i magistrati in carne ed ossa competenti a farla funzionare. Ciò è tanto più vero di fronte ad una impresa giudiziaria priva di precedenti come quella milanese: questa inusitata impresa non avrebbe, in effetti, potuto vedere la luce se il pool di pubblici ministeri non si fosse intenzionalmente accollata la missione di ripulire la vita pubblica e moralizzare la politica al fine di promuovere un ricambio della classe dirigente, credendo di assolvere così una sorta di mandato popolare neppure tanto tacito. E, infatti, i giudici ricevettero un esplicito ed entusiastico sostegno da parte di una opinione pubblica politicamente trasversale e di quasi tutto il sistema mediatico: per cui essi finirono col sentirsi legittimati a portare avanti questa vasta azione repressiva, più che in forza di un astratto obbligo legale, dalla diffusa richiesta popolare di fare piazza pulita della partitocrazia corrotta.

 

Che all’origine di Mani Pulite vi fu (e non poteva non esserci) un complesso intreccio di fattori oggettivi di contesto e di protagonismo soggettivo sul versante magistratuale è del resto un assunto che trova conferma anche in alcune significative testimonianze di quella fase storica, così come riportate in qualche saggio ricostruttivo apparso in questo venticinquennio. Leggendo ad esempio la storia di Tangentopoli scritta da Marco Damilano (Laterza 2012), ci si imbatte in questo emblematico giudizio di un osservatore privilegiato come il noto imprenditore Carlo De Benedetti: “Una combinazione di protagonismo dei giudici e di un vaso ormai troppo pieno” (dove è chiaro che per vaso troppo pieno è da intendere una grave situazioni di crisi a più livelli). Orbene, proprio questo forte attivismo giudiziario, in funzione miratamente antagonistica rispetto al sistema partitico di allora, ha determinato non soltanto una esposizione politica della procura milanese eccedente i contraccolpi oggettivamente destabilizzanti che le indagini sulle vicende corruttive avrebbero comunque prodotto sulla tenuta dei partiti di governo: si è invero assistito a una sovraesposizione politica che ha finito con l’assumere la caratteristica aggiuntiva di un paradigmatico populismo giudiziario. Intendendo per tale, appunto, la forma di manifestazione del populismo penale sul piano specifico della giurisdizione: fenomeno che ricorre tutte le volte in cui il magistrato pretende, anche grazie a una frequente esibizione mediatica, di assurgere ad autentico rappresentante o interprete dei veri interessi e delle aspettative di giustizia dei cittadini, e ciò in una logica di concorrenza-supplenza e in alcuni casi di aperta contrapposizione rispetto al potere politico ufficiale. Non è un caso, allora, che questa figura di magistrato-tribuno, oltre ad impersonare di fatto un ruolo ibrido di attore giudiziario-politico-mediatico, finisca col cedere alla tentazione di entrare in politica e talvolta col dare persino vita a movimenti anti-sistema di impronta personale: le esemplificazioni sono così note che possiamo qui fare a meno di esplicitarle.

 

Il frutto di quell’epoca, oggi, è un’azione giudiziaria che tende a realizzare invasioni di campo in ambiti politicamente rilevanti

Sembra, dunque, abbastanza plausibile sostenere che Mani Pulite abbia avuto ricadute politiche ad amplissimo raggio che vanno al di là del colpo di grazia inferto al tradizionale sistema partitocratico: una magistratura consapevolmente operante come strumento di rivincita della società civile contro i partiti corrotti e i metodi utilizzati, in particolare, da un accusatore-tribuno del popolo come Antonio Di Pietro diedero infatti – come ha ad esempio apertamente riconosciuto Romano Prodi nel contesto di un libro-intervista su politica e democrazia (Laterza 2015) – un fortissimo impulso alla “stagione di un populismo senza freni”. Se ciò è vero, e se si condivide la convinzione che il populismo politico (comunque declinato: di destra, di sinistra o anche di destra-sinistra miste) non rappresenti una risposta intelligente ed efficace alla crisi della democrazia, prima di auspicare nuove rivoluzioni giudiziarie modello Mani Pulite bisognerebbe riflettere in maniera ponderata sul rischio che una giustizia penale caricata di missioni palingenetiche produca, alla fine, più danni che vantaggi. Segnalare questo rischio equivale a dare un giudizio negativo su un’impresa giudiziaria che è stata invece tante volte elogiata? Un consuntivo a venticinque anni di distanza, per quanto più distaccato e meno emotivo, non può non risentire (oltre che di pudori politicamente corretti) dell’orientamento politico-culturale e della sensibilità personale di chi giudica. Ma non è privo di significato che abbiano avuto ripensamenti anche alcuni di quelli che furono allora aperti sostenitori della rivoluzione giudiziaria, come ad esempio Piero Ottone: “In realtà, un po’ mi ricredo. Penso adesso, a tanti anni di distanza, che la pulizia improvvisa, la moralità imposta da un giorno all’altro, creava altri problemi (…). La lunga stagione di procedimenti giudiziari ha prodotto altri guai: se si eliminavano certi malanni se ne producevano altri. Infatti: molti magistrati ne hanno tratto una sensazione di onnipotenza, sono sbandati per altri versi”(citazione tratta dal libro di memorie Novanta, Longanesi 2014).

 

Comunque la si pensi, certo è che Mani Pulite, oltre a non avere sconfitto la corruzione, ha contribuito anche per successiva emulazione ad alimentare tendenze ad un esercizio politicamente mirato dell’azione giudiziaria che da un lato hanno più volte continuato a produrre perniciose sovrapposizioni tra giustizia e politica e, dall’altro, hanno finito col determinare nei cittadini una progressiva caduta di fiducia rispetto all’imparzialità del potere giudiziario: secondo recenti sondaggi, infatti, la stragrande maggioranza (il 69 per cento) ritiene che alcuni settori della magistratura perseguano obiettivi politici, mentre all’epoca del pool milanese a confidare nei giudici era l’83 per cento delle persone (cfr. i dati riportati da Goffredo Buccini nel Corriere della sera del 22 marzo scorso). Se queste percentuali sono attendibili, risulta in realtà avvalorata la preoccupazione che l’uso politico della giustizia rappresenti – non meno del populismo nelle sue variegate forme – un pericolo mortale per la democrazia: perché ingenera l’illusione (che può risultare, a sua vota, deresponsabilizzante per la classe politica) che il rinnovamento politico e la moralizzazione pubblica possano essere perseguiti per via giudiziaria; e perché, per altro verso, assoggetta anche l’azione giudiziaria alla logica e ai metodi della contesa politica, così rinnegando l’imparzialità della magistratura quale principio-cardine di una democrazia degna di questo nome.

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