Ottavio Bottecchia

Da Caporetto ai Campi elisi. L'epopea ciclistica di Ottavio Bottecchia

Giovanni Battistuzzi

La fuga dalla disfatta e le fughe in bicicletta. "Il corno di Orlando" di Claudio Gregori racconta uno dei più forti corridori degli anni Venti, tra vittorie, sconfitte e misteri

Il fronte che crolla, la fuga alla rinfusa per monti e pianure, per colline e per fiumi, mentre i nemici avanzavano, sparanti e occupanti. Caporetto, un secolo fa, luogo carsico diventato antonomasia di disfatta. Caporetto, un secolo fa, perché ora Kobarid, Slovenia, ancora per qualcuno Cjaurêt, dialetto friulano, per nessuno ormai Karfreit, dominio austriaco. Caporetto, che sul fronte e nella fuga in tanti ci lasciarono il cappello e le penne, nel senso di vita, kaputt, perché a sparare erano gli austriaci. Storia d'Italia e di guerra, Grande guerra, che sembrava persa prima che tutto si rivoltò, sul Piave e poi verso la via di Vittorio Veneto, a favor del tricolore. Una fuga di chilometri a rientrar verso il Veneto per scordare il Friuli, per molti uomini sconosciuti, che sconosciuti rimasero per sempre, a meno di qualche targa in qualche paese, gloria in cambio della vita, al massimo qualche medaglia al valore, la maggior parte postuma. Tra loro fanti e alpini, artiglieri e bersaglieri. Di corsa o a cavallo di una bicicletta, se ancora non era stata abbandonata. Biciclette che servivano di ricognizione e di trasporto, Bianchi ammortizzate decenni e decenni prima che la mountain bike diventassero rivoluzione delle due ruote a pedali, che le ruote diventassero grasse e conquistassero prima l'America e poi tutto il mondo. Biciclette che servivano a uomini qualunque e a qualche campione, di prima della guerra come Carlo Oriani, che nelle sue zone era il "Pucia" per via di quella fame atavica che portava con sé che lo portava a pulire il piatto con il pane, che nella fuga da Caporetto trovò il Tagliamento e lì, per salvare un commilitone dalle acque fredde del fiume, si prese la polmonite e un mese dopo morì.

 
 
La Grande guerra falciò al fronte una intera generazione di campioni e gregari. Di interventisti convinti e poveri diavoli mandati al massacro. Come Lucien Georges Mazan, diventato in bici Lucien Petit-Breton per non far sapere alla famiglia di essere un ciclista, morto sulle Ardenne per una scheggia di granata incancrenitasi. Come Octave Lapize, corridore eccezionale che dopo aver dimostrato di volare sul pavé della Parigi-Roubaix e sulle salite del Tour, iniziò a volare sul fronte tedesco prima di essere abbattuto nel luglio del 1917. Come François Faber, ossia il gigante di Colombes, virgulto di ciclista che sembrava un treno a pedali.

 
 
Da quella distruzione si salvò qualcuno, qualcuno poi continuò a pedalare a conquistar territori non più a fucilate e baionette, ma a forza di fughe e di scatti. Ci riuscì, tra gli altri e meglio degli altri Ottavio Bottecchia, che da San Martino di Colle Umberto, provincia di Treviso, passò ventitreenne per le rovine di Caporetto, divenne predatore e mito in Francia, su e giù per le strade del Tour de France. Che dalla salita del Calvario, duecento metri verticali in terra battuta che saliva dalla piana di Vittorio Veneto sino alla Chiesa del paese, conquistò Pirenei e Alpi in maglia gialla, per poi raggiungere Parigi da primatista, primattore, principale urrà del popolo francese, che in lui vedeva l'esempio della miseria lasciata alle spalle, la silenziosa capacità della sofferenza, un nome che francese non era, ma che lo poteva essere: Botescià.

 

 
 
Caporetto non è inizio di niente, forse di una rivalsa armata che fece rimanere libero un paese. Caporetto è passaggio in una vita misteriosa di una campione che parlava poco, vinceva poco, ma quando capitava lo faceva meravigliosamente, dopo assoli maestosi. Caporetto è però incipit di una storia raccontata da Claudio Gregori. E' "Il corno di Orlando", ossia "Vita morte e misteri di Ottavio Bottecchia", edito da 66thand2nd. E' dolore tramutatosi in gloria perché "la gloria nasce dal dolore. I corpi si torcono, si alzano sulla sella ciondolando in una danza grottesca e sofferta". E' ciclismo, ma può essere tutto. E così la bici diventa metafora, diventa come le armi "strumento di tortura. I volti sono deformati da smorfie. Le bocche cercano ossigeno. Si intuisce il tam-tam del cuore che scoppia". Armi che sono fioretti e bandiere, ma che non provocano niente se non ondate di esultanza popolare. 

 

 
 
Il racconto di Bottecchia secondo Gregori è una piccola storia d'Italia, capace di percorrere il Ventennio che stava iniziando, trasferendosi in Francia perché come ogni buon romanzo che si rispetti porta gli eroi a conquistare territori esteri, non allori nazionali. E' un susseguirsi di corse che ormai non esistono più, scenari di periferie e di capitali dell'Italia che fu, e di gare che esistono ancora, che hanno passato un secolo a corrersi e a rincorrersi. Bottecchia di queste è stato prima inseguitore e comparsa, poi, in terra di Francia protagonista eccezionale. Bottecchia ha conquistato due Tour de France di seguito (1924 e 1925) e nessun italiano più c'è riuscito. Bottecchia ha percorso un quarto del Novecento si è fatto inseguire da un regime che cercava allori transnazionali senza mai farsi raggiungere, ché era il pane e non la gloria a interessare al corridore veneto. Bottecchia correva per fame, ché la fame sapeva cos'era e quanto fosse giusto sfuggirgli. Correva per mangiare e dare alla sua famiglia e a sua moglie un'altra vita, un altro futuro. Correva perché era la cosa che gli riusciva meglio, con la tranquillità di chi non ha niente da perdere perché niente possedeva se non un tascapane con qualche pagnotta alla partenza e un po' di rifornimenti per i familiari al ritorno. "Era un povero diavolo", scrisse Bruno Roghi dopo averlo incontrato alla Milano-Sanremo del 1921. "C'era da convenirne badando al suo vestito civile, sbrindellato e liso. Recava a tracolla una bisaccia, c'era dentro pane e formaggio, se li era portati dal paese, le vivande ghiotte del 'rifornimento' le avrebbe riportate a casa, intatte, perché mangiassero un po' meglio i suoi".

 

 
 
Gregori racconta una storia magnifica, di polvere, bici e fatica, che da Caporetto passa e finisce a nemmeno cento chilometri da Caporetto, a Gemona, con un corpo a terra e un mistero che arriva sin oggi.

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