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Sia lodato Rebellin e la sua passione eterna per la bicicletta

Giovanni Battistuzzi

A 46 anni il ciclista veneto vince ancora. Lo ha fatto oggi in Indonesia, all'International Tour de Banyuwangi Ijen, battendo avversari con la metà dei suoi anni

Banyuwangi significa acqua profumata. Banyuwangi significa isola lontana, punta estrema di quella di Giava, Indonesia, avamposto verso Bali. Banyuwangi significa esotismo, al di là ancora della Malesia, al di là ancora dell'immaginario. Banyuwangi significa altrove, un altrove di storie di templi magici e riti che chiedono grazia al dio vulcano e al dio oceano, che sono richiesta di eternità dello spirito, ché basta questo, ché la carne e il corpo sono terreni, predisposti all'evoluzione e al decadimento. Per tutti, o forse no, perché in certi casi il tempo sembra fermarsi, non procedere spedito. Laggiù, Banyuwangi significa, clessidra alla mano, anche e ancora Davide Rebellin, cioè eternità sportiva, perché Davide Rebellin è nato nel secolo scorso, ha incontrato la bici nel secolo scorso, ha iniziato a vincere nel secolo scorso e continua imperterrito a farlo anche nel secolo nuovo. Era il 1992 quando passò professionista; era il 27 aprile 1995 quando vinse la sua prima corsa di rilievo: seconda tappa del Giro del Trentino a Lagundo, cinquemila anime alle porte di Merano; è il 27 settembre 2017 e Davide Rebellin è ancora lì, davanti a tutti, prima in salita verso i 500 metri e oltre dell'ultimo gran premio della montagna, poi giù verso il mare, oltre un minuto e mezzo prima degli inseguitori più vicini, due ragazzini australiani di ventitré anni, ossia in due gli stessi del corridore veneto.

 

A quarantasei anni Rebellin ha cambiato scenari, ha lasciato l'Europa e il ciclismo da copertina per girare il mondo ancora su di una bicicletta, percorrendo strade sconosciute ai più, lungo coordinate geografiche che il grande circo delle corse non ha nemmeno mai preso in considerazione. Lui che ha conquistato tutte le classiche delle Ardenne – Liegi-Bastogne-Liegi, Freccia Vallone, Amstel Gold Race –, e nel 2004 addirittura tutte e tre in una settimane, come mai nessuno al mondo prima era riuscito a fare, nemmeno Eddy Merckx, continua a faticare e a divertirsi in orizzonti lontanissimi, con addosso la sua maglia azzurro-nera del Kuwait – Cartucho.es, serie C del ciclismo. Continua soprattutto a vincere, perché in questi quasi trent'anni di professionismo non ha mai smesso.

 

Oltre sessanta successi in una carriera che sembra senza fine. Venticinque anni passati ad allenarsi e a gareggiare su e giù per il globo e con la stessa dedizione indipendentemente se fosse la Liegi, il Giro oppure l'International Tour de Banyuwangi Ijen. Perché la passione di Rebellin è sempre stata questa, la bicicletta, estensione naturale del suo corpo. Perché per correre ancora, a 46 anni, si deve essere animati soltanto da quella. Perché per vincere, a 46 anni, è solo l'amore per questo sport a farti dannare per non essere ripreso, anche se gli avversari non sono più Aleksandr Vinokurov, Michael Boogerd, Paolo Bettini, ma Drew Morey, Marcus Culey e Aiman Cahyadi.

 

Davide Rebellin continua a correre, lo fa per sé, più per quell'amore che si chiama bici, che per quello sport che gli è stato ingrato, il ciclismo; che non lo ha mai voluto riabilitare appieno per quella squalifica per doping di un decennio fa: Cera, ossia l'evoluzione dell'Epo, alle Olimpiadi che aveva concluso secondo dietro a Samuel Sanchez; che ha continuato a giudicarlo colpevole nonostante la giustizia ordinaria avesse sentenziato: "Assolto perché il fatto non sussiste"; che lo ha lasciato ai margini del circo, come atleta non gradito. Gradito o no, Rebellin continua. Per fortuna.

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