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Contador e il tempo (giusto) degli addii

Giovanni Battistuzzi

Il campione spagnolo ha annunciato che la Vuelta España che inizierà la prossima settimana sarà la sua ultima corsa. Peccato. Ma è una decisione azzeccata, perché 34 anni è il momento buono per abbandonare il ciclismo per un corridore come lui

“Ascoltami o sol e prenditi cura di lui, che cavalca nella notte alla ricerca di te nel suo ultimo viaggio per Spagna e per mar”. La voce di Maria Barrientos si alzava sopra una chitarra spagnola triste e disperata, prima di farsi gitana e nervosa al ritorno del cavaliere. Perché troppo struggente la richiesta al sole per non essere esaudita, perché questa è una storia che commuove, che sembra amore impossibile, ma incontra un lieto fine. La guerra ancora non era arrivata, Franco ancora non si sapeva chi fosse e la Spagna sapeva ancora cantare d’amore, di passione e di addii. Era il 1920 e l’ultimo viaggio dell’amato cavaliere non è poi diverso da quello che verrà del Pistolero. Mestieri di mondo e di avventura, sia questa a cavallo oppure in bicicletta. Perché il Pistolero non cavalca, pedala; perché il Pistolero non spara, scatta; perché il Pistolero è Alberto Contador e oggi ha dato un appuntamento, quello per il suo adios ai numeri da attaccarsi sulla schiena, alle maglie colorate del gruppo, forse non alla bicicletta, chissà: 10 settembre 2017, Madrid, ventunesima e ultima tappa della Vuelta España, l’ultima grande corsa a tappe della stagione, epilogo della sua carriera ciclistica. Sicuramente non un giorno come tutti gli altri. Sicuramente non un addio come tutti gli altri.

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Trentaquattro anni è un’età buona per i saluti, accettabile soprattutto per non entrare in quella spirale di rinvii patetici nella quale molte volte cadono grandi atleti, incapaci di salutare quel che è stato, quando quello che è stato non potrà essere replicato. Trentaquattro anni è un’età che nel ciclismo di oggi permette di avere altre primavere e altre estati e altri autunni davanti. Trentaquattro anni sono un mondo ancora aperto per ciclisti moderni, perché il ciclismo moderno si è dilatato, ha aggiunto tempo al tempo. Ma bisogna essere ciclisti moderni, non Alberto Contador, perché Alberto Contador di moderno ha poco, è uno che ha corso e corre all’antica, non è calcolo, ma intuizione, non è ragioniere, ma pasionario. Uno che allo scudo ha preferito sempre la spada e questa ogni anno che passa pesa sempre di più e a un certo punto può diventare insostenibile.

 

E così i 3.298 chilometri che avranno il via il 19 agosto per concludersi il 10 settembre saranno gli ultimi della carriera del Pistolero, saranno l’ultimo tentativo per accumular successi in un palmares che di altri successi non avrebbe bisogno, perché tre Giri d’Italia, tre Tour de France e tre Vuelta España sono un bottino che pochissimi sono riusciti a mettere in cascina.

 

E poco importa se poi a scrutar gli albi d’oro i Tour in realtà sono due e così lo stesso i Giri, se sopra il suo nome ci sia una striscia nera e affianco la parola, orribile, revocato. Sono ghirigori in una storia di un caballero al quale si devono perdonare macchie nere, che ci sono e sarebbe idiota ignorarle e criminoso tacerle. Ma che alla resa dei conti, per quanto si è visto, viene da dire solamente una cosa: chissenefrega.

 

Perché Contador dal 2003 al 2017 ha avuto il merito di contribuire a rendere ancora magico questo sport e lo ha fatto giocando sulla bicicletta, dimostrando di essere il migliore, attaccando e fregandosene molto spesso di saltare, di perdere. E tutto questo mentre la sua cattiva stella ogni tanto faceva capolino palesandosi in cadute e lacrime e sfortuna che mezza ne sarebbe bastata, in un aneurisma celebrale che lo poteva allontanare non solo dalla bici, ma pure dalla vita. Era il 2005 e da quel giorno la giovane speranza madrilena si trasformò prima in un’assenza e poi in un campione capace di spazzar via qualunque avversario e qualsiasi sconfitta.

 

E tutto questo nonostante qualche ombra che ne ha accompagnato la corsa.

 

Ombre che prendono forma e nome: Operacion Puerto e Clembuterolo, le più evidenti, le più pesanti. La prima diventata assoluzione, la seconda evidente, ma incerta per cause e motivazioni. La prima diventata forma in sacche di sangue ossigenate e congelate, pronte da utilizzare al momento più opportuno, quando servivano forze fresche per vincere. Contador scagionato, ma tra i dubbi per l’atteggiamento della magistratura spagnola che non ha mai voluto approfondire davvero gli affari del professor Eufemiano Fuentes. La seconda diventata condanna, nonostante la positività fosse apparsa in modo non del tutto chiaro una volta sola in un Tour dominato (la maglia gialla viene controllata ogni giorno) e sparita già l’indomani nonostante sia quasi impossibile l’eliminazione da un giorno all’altro di sostanze proibite.

 

Ombre che comunque non interessano, perché a un corridore come Contador gli appassionati di ciclismo sono riusciti a perdonare tanto, quasi tutto. Perché lui è riuscito a rendere ininfluente il massacro del sospetto al quale questo sport si è fin troppo piegato. E lo ha fatto sia quando vinceva, sia quando non riusciva più a farlo. Come poche settimane fa verso Foix al Tour, in quel su e giù per Pirenei iniziato che era mattino, che erano 70 chilometri al traguardo, diventato fuga a quattro con Barguil più lesto a farsi sprinter e beffare gli altri. Oppure verso Serre Chevalier, quando sulla Croix de Fer provò il colpo grosso. Avanguardia per molto, poi le gambe si indurirono, Roglic se ne andò via da solo e il Pistolero ritornò inseguitore.

A Contador manca ora poco più di un mese per chiudere tutto e far diventare le sue fughe in bicicletta un ricordo. Un mese e basta per inserire qualcos’altro nella sua storia a pedali, per far capire ancora una volta cosa ci perderemo dal prossimo anno.