Antonino Buono

Paziente e analista, la grande danza dell'esistenza

Davide D'Alessandro

Antonino Buono, neuropsichiatra e psicoanalista junghiano, autore di “Sogni. Realtà altra, immaginazione creativa, profezia”, avverte: “Il rischio di chi svolge questa professione è di montarsi la testa e ritenere di saperla lunga. Dentro la stanza giriamo sempre intorno alle speranze e ai desideri di “Vita”, all’inquietudine su ciò che verrà o non verrà dopo. L’analisi è un cammino verso una semilibertà o una prigione meno rigida”

Che cos’è e a che cosa serve l’analisi

È un metodo che può permettere di acquisire una discreta o buona conoscenza di sé stessi, mai esaustivo. Metodo che si basa sul disvelamento dell’inconscio inteso come contenuti rimossi e non rimossi, mi riferisco ai simboli archetipici della psicologia analitica di Jung. Nella cultura e mentalità occidentale credo sia il metodo più completo ed efficace. Talora penso ad altre modalità di approccio e di disvelamento del proprio mondo interiore, come la via mistica, contemplativa occidentale e orientale, che però ritengo richiedano attitudini e personalità particolari. Mi incuriosisce anche il Buddhismo Zen.

Perché tanti anni fa decise di affidarsi a un analista?

La motivazione evidente sul piano razionale fu quella di completare la mia preparazione di psichiatra, perché ritenevo e ritengo molto utile aggiungervi l’esperienza psicoanalitica.

Come scelse i suoi analisti? 

Non sono stato io a sceglierli. Ero molto giovane e mi ero trasferito da Bologna a Roma e per me fu molto importante l’incontro e l’amicizia alla “neuro” con Francesco Paolo Ranzato. Fu lui a darsi da fare per favorire il mio inserimento nell’ambiente romano, aiutandomi ad ambientarmi a Roma e nei reparti di neuro-psichiatria romani. Seppe ascoltare e prendere in considerazione la mia curiosità per la psicoanalisi e si prese cura di affidarmi a un analista di cui aveva stima, invitandomi anche a frequentare il G.A.P.A (Gruppo autonomo di psicologia analitica), da lui fondato, e in seguito permettendomi di pubblicare sulla sua rivista “Il Minotauro”.

Che cosa occorre per fare un ottimo analista?

Essere consapevole di avere una certa problematicità psichica personale, perché è un forte stimolo personale e anche di confronto con gli altri e avere una buona dose di sensibilità e di intuito psicologico. Qualità indispensabile, avere tanta curiosità e umiltà per non incorrere nella maledizione di sentirsi un “saputello” che la sa più lunga degli altri e che ha capito tutto. L’analista è un compagno di viaggio che deve avere, fra l’altro, degli strumenti conoscitivi, ma non riesco a vederlo come una sorta di Saggio.

 Le tante scuole in psicoanalisi aiutano o confondono?

A seconda dei casi possono aiutare come stimolo di confronto e in altri casi possono creare una confusione che sa di caos. Deleterio e ridicolo quando si ritiene di trovarsi in una sorta di spazio “sacro” depositario della verità.

Perché ritiene Jung il più convincente dei maestri?

Più che convincente, io lo vedo come lo studioso che ha dilatato la sfera delle possibilità della psiche umana. Le sue proposte e ipotesi, quali l’archetipo in sé, i simboli archetipici, la funzione trascendente, la dimensione psicoide, sono un potente stimolo di ricerca teorica e individuale. Mi stranisco quando qualcuno afferma con sicumera che si tratti di teorie del tutto fantasiose e inconsistenti.

Per James Hillman siamo chiamati a “fare anima”. Per lei?

La “chiamata” è fortemente individuale, intendo dire che alcune strutture psichiche tendono a volare molto in alto e altre no. Nella pratica clinica io lancio degli stimoli soprattutto per quanto riguarda la sfera dello spirituale, ma cerco di rispettare molto le richieste dei singoli pazienti. Io sono uno psichiatra e cerco di offrire un aiuto e di proporre degli stimoli ma, soprattutto sui temi spirituali, non intendo attuare pratiche di “apostolato”.

Chi e che cosa decide quando termina l’analisi?

Molto stimolante è il saggio di Freud su analisi terminabile e interminabile. Per quanto riguarda la mia esperienza, quasi sempre a decidere è il paziente e io raramente contesto la decisione. In generale si può dire che un'analisi di certo termina quando analista e paziente non hanno più nulla da dirsi.

Quale è la forma più grave di nevrosi che si trova frequentemente davanti?

Alcune sindromi fobico-ossessive, sindromi complesse e variegate e il disturbo narcisistico di personalità.

Curano di più le parole o i silenzi?

L’analisi è supportata dalle parole, nel senso che si svolge nel contesto di un rapporto basato sul dialogo analista-paziente e di solito dominano le parole, ma anche i silenzi hanno la loro importanza, sia quelli del paziente che quelli dell’analista. Anche i silenzi possono essere una forma di comunicazione e un veicolo di informazioni e di stimoli, talora molto importanti. Nei silenzi entrano in gioco in modo più evidente processi di comunicazione extraverbali, quali gli sguardi, la mimica facciale, la postura, il gioco delle mani ecc. In teoria una seduta può essere trascorsa anche in silenzio e avere scatenato potenti stimoli. Io di solito tendo ad aiutare il paziente quando non parla, ma cerco di non forzare. Poi aggiungerei che noi siamo italiani, nel senso che forse per noi il silenzio è meno sopportabile rispetto ad altri popoli. Insomma è sempre questione di buon senso, di equilibrio, di opportunità di favorire o meno i silenzi.

Anche l’analista come il padre va ucciso o, se preferisce, oltrepassato?

Preferisco che non venga ucciso in tutti i sensi… Io la metterei nel senso di favorire lo sviluppo della maggiore autonomia possibile.   

Come si lavora per fare crollare le resistenze?

Mediante il dialogo e il confronto analista-paziente, su di una base di grande rispetto, cautela, prudenza, delicatezza. Ogni cosa a suo tempo, mai agire con la grazia di chi intende buttare giù una porta, soprattutto se si tratta di porte blindate.

È più complicata la gestione del transfert o del controtransfert?

La gestione del controtransfert, che richiede, a parte la preparazione, equilibrio psichico, una buona maturità psicologica, la capacità di percepirlo nelle sue diverse manifestazioni. Forse è la cartina di tornasole del livello di maturità dell’analista. Ma c’è da aggiungere che la buona gestione matura anche nel corso degli anni con l’esperienza.

Per Freud il sogno è la via regia per accedere all’inconscio, se viene bene interpretato direi. E’ possibile avere una conferma di una buona interpretazione?

Penso che abbia ragione Freud, ma ovviamente bisogna essere capaci di gestire il dialogo paziente-analista anche al di là dei sogni. Ci sono pazienti che hanno molta difficoltà a ricordare i propri sogni e pazienti che non li ricordano quasi mai. Io non assillo i miei pazienti per evitare che si sentano come degli alunni che non hanno fatto i compiti. Secondo me per alcuni sogni è possibile avere la conferma di una buona interpretazione: dipende dal tipo di sogno, dalla ricchezza del simbolismo e dalla struttura del sogno. Aggiungo che, contrariamente a quanto sostengono alcuni, nel caso di alcuni sogni non esiste la possibilità di una pluralità di interpretazioni, quasi a dire che essa dipende dalla fantasia e creatività del paziente o dell’analista.

Ha faticato di più a lavorare con il suo inconscio o con quello degli altri?

Con il mio, da quando ero al liceo e fino a oggi, perché molto incuriosito dei miei pensieri, desideri ecc. Mi ha molto colpito la risposta che le ha dato, in una intervista, il filosofo Aldo Masullo, nella quale asseriva che il suo più grande rincrescimento, nel momento del passaggio dall’altra parte, sarà quello di non avere compreso bene chi è stato Aldo Masullo. In qualche modo la penso allo stesso modo. Mi applico a comprendere i miei pazienti al meglio, ma sono convinto che la mia conoscenza su di loro resterà molto parziale. Mi ripeto più o meno spesso il proverbio migiurtino, che asserisce che sono tre le cose che gli uomini non possono vedere: l’ombra di dietro, gli occhi della formica e il cuore degli uomini.

Il costo elevato di un lungo percorso analitico ha spinto molti a orientarsi verso le cosiddette analisi brevi, ma può esistere una analisi breve?

No. Se si parla di analisi, essa è necessariamente lunga.

L’analisi è un cammino di libertà. Le piace questa definizione o è incompleta?

Direi verso una semilibertà… o una prigione meno rigida… Esisteranno dei Saggi o degli Illuminati, ma io non ne ho incontrati. Libertà piena presuppone una conoscenza totale di sé stessi e non penso sia possibile. La Coscienza è una entità che nel migliore dei casi cerca sempre, ma se cerca sempre per tutta la durata della vita terrena significa che non approda mai al traguardo.

Qual è il rischio che c’è dietro l’angolo dell’analista?

Montarsi la testa e ritenere di saperla lunga.

Per Thomas Ogden ci vogliono due persone per pensare, ma sono soltanto due le persone che si incontrano durante la seduta?

Sì, sono due persone soltanto, che dialogano e che, quando va bene, sono come due   illusionisti capaci di fare apparire su di una sorta di palcoscenico immaginifico una molteplicità di personaggi, vere ombre a cui si danno ruoli, compiti e interpretazioni. Mai esaustive e non necessariamente “vere” in assoluto, perché rimane pur sempre un gioco di interpretazione di persone, cose, eventi.

La sfera sessuale è sempre al centro dell’analisi o c’è dell’altro?

Al centro direi di no, ma ricorrendo ai concetti di Eros e Thanatos mi viene da pensare che paziente e analista girano sempre attorno al tema della Vita e della Morte, di speranze e desideri di “Vita” e inquietudine sul senso o meno della grande danza dell’esistenza e su ciò che verrà o non verrà dopo.