Mons. Vincenzo Paglia. Foto tratta da catholic news agency

L'Io, Paglia e il crollo del Noi

Davide D'Alessandro

Spunti dall’ultimo libro del Monsignore, uno dei consiglieri più ascoltati da Papa Francesco

C’è una corsa arrembante e spasmodica alla ricerca del Noi (temendone la scomparsa o segnalandone il crollo), una celebrazione trombettistica di questo pronome di prima persona plurale da anteporre al combattutissimo e disgraziatissimo pronome di prima persona singolare, il povero Io, ridotto a origine e causa di tutti i mali, psicologici e sociali. È stato Sigmund Freud a dirci nel lontano 1916 (formidabili, quegli anni!) che “l’Io si sente a disagio, incontra limiti al proprio potere nella sua stessa casa, nella psiche. L’Io non è padrone in casa propria”. È Massimo Recalcati a ricordarci, un giorno sì e l’altro pure, lavorando con acume sulla pagina di Jacques Lacan, che la vera patologia è credersi un Io, non un Dio.

Ma esiste l’Io? O l’Io è anche un pezzo dell’altro, già connesso all’altro, fatto anche di altro? Perché separarlo dal Noi? Per renderlo più cattivo, per isolarlo, per additarlo al pubblico ludibrio, l’Io con quel maledetto selfie incorporato? Così, Noi siamo i buoni e l’Io è cattivo. Ma se l’Io è cattivo, cosa reca con sé quando corre precipitosamente a farsi Noi, quando entra in comunità, quando siede alla mensa con tanti altri Io? È diventato più buono? Si è finalmente liberato del suo insulso narcisismo? O non se n’è liberato affatto, perché l’uomo è quella roba lì, vivaddio, è soprattutto quella roba lì, e sommandola agli altri Io rischia di costruire un gigantesco Noi, questo sì davvero pericoloso?

Domande, soltanto domande, alle quali Mons. Vincenzo Paglia non ha paura di rispondere, tanto che il suo ultimo libro, edito da Laterza, ha per titolo “Il crollo del Noi” e non “Il crollo dell’Io”. Per l’autore, immediatamente incensato con due pagine su “Repubblica” da Eugenio Scalfari, viviamo il tempo dell’Egocrazia, generatore di vuoto, alimentatore di drammi umani, perché l’uomo non è fatto per essere solo, per fare da solo, perché evangelicamente “non è bene che l’uomo sia solo”. L’uomo, per Mons. Paglia, deve smettere di chiedersi “Chi sono io?” e approdare al più sano “Per chi sono io?”. Ma un uomo che smette di chiedersi “chi è”, non è più un uomo. Soltanto un uomo che sa chi è, che cerca di sapere chi è, può proporsi a qualcuno per qualcosa. Se so chi sono, sono in grado di chiedermi per chi sono.

Non va indebolito l’Io o quel che ne resta. A forza di indebolirlo, di picconarlo, lo abbiamo diseredato anche di quel poco che era suo, che sembrava suo in una casa non sua. La nostra vita quotidiana non è forse l’immagine di tanti Io sfilacciati, sfibrati, persi, privi di sostanza autentica? Sono così perché non approdano al Noi? Sono così perché non aprono le loro ali all’abbraccio con altri Io sfilacciati, sfibrati, persi, privi di sostanza autentica? O sono diventati così perché hanno smesso di porsi la domanda che Mons. Paglia vorrebbe relegare in secondo piano o, peggio, salutare per sempre? A forza di allontanarci dal centro, da una qualche forma di centralità stabilizzante, siamo giunti in una periferia di nessuno, in una landa desolata dove tanti Io non fanno un Noi, perché non può esserci Noi senza Io. Nessun uomo è un’isola, ma guai a lasciar morire le isole. Non mi spaventa il crollo del Noi, mi spaventa il crollo dell’Io. Forse dovremmo lavorare su un’altra parola, il Nio, una sorta non di impasto, non di fusione, ma di riconoscimento, di incontro su un’altra scala che non abbia i pioli incerti e tremolanti, ma che sia ben piantata per terra, la nostra amata terra. Solo così, forse, sarà possibile salire un po’ più su e provare, insieme, a lanciare uno sguardo  persino verso il cielo.