Il palazzo Justus Lipsius, sede dei Consigli europei a Bruxelles (foto LaPresse)

Più integrazione, meno federazione? Questo è il problema

Matteo Scotto

Non è che nell’Unione europea, a differenza di altri modelli di federazione, più ci avviciniamo e più ci dividiamo?

Un paio di anni fa è uscito un articolo sulla rivista accademica “Journal of European Public Policy” a cui è stata dedicata troppa poca attenzione da parte di chi d'Europa parla tanto ma ne capisce poco. L’articolo, scritto a quattro mani dal professor Philipp Genschel dell’Istituto Universitario Europeo di Firenze e dal professor Markus Jachtenfuchs della Hertie School of Governance di Berlino, pone un quesito interessante. Non è che nell’Unione europea, a differenza di altri modelli di federazione, più ci avviciniamo e più ci dividiamo? La riflessione nasce dalla giusta constatazione che negli ultimi anni, e più precisamente da quando nell’UE abbiamo iniziato a collaborare più intensamente su capitoli chiave come la forza coercitiva, la politica monetaria e fiscale e l’autorità giuridico-amministrativa, la tendenza è stata quella di una decentralizzazione che ha l’aria di disintegrazione piuttosto che d’integrazione, in particolare per ciò che riguarda l’architettura istituzionale dell’UE. In effetti, seguendo Genschel e Jachtenfuchs, basta guardare quello che ci succede intorno. In primo luogo, abbiamo assistito al rafforzamento di istituzioni intergovernative, quindi rappresentanti gli Stati membri, come il Consiglio europeo, affiancate da organismi informali di coordinamento come l’Eurogruppo o il COSI (Comitato permanente per la cooperazione operativa in materia di sicurezza interna), che prendono decisioni sulla base di un sistema incrociato di veti che nulla ha a che vedere con un metodo veramente comunitario. In secondo luogo, il ruolo della Corte di giustizia europea, del Parlamento europeo e della Commissione europea, che sono le istituzioni portatrici di interessi compiutamente europei, viene sempre più messo in discussione, causando un indebolimento della loro posizione. Nello specifico, la Corte di giustizia europea viene regolarmente chiamata in causa per rivendicare l’incostituzionalità delle azioni dell’Unione, non in ultimo dalla Corte costituzionale federale tedesca, la quale inscena l’ennesimo attacco agli interventi della Banca centrale europea guidata da Mario Draghi. Un’accusa sferzata persino dal Ministro delle finanze tedesco Wolfgang Schäuble, che ha difeso il governatore e il suo mandato. Il Parlamento, che nelle varie riforme dei trattati ha consolidato sulla carta i suoi poteri, ha perso di recente parecchio terreno, sia internamente, dove le coalizioni avvengono ormai più spesso su base nazionale che partitica, sia esternamente, con i parlamenti nazionali che rivendicano diritti di voto anche su materie, come la politica commerciale, che formalmente non gli competono. La Commissione, nella sua nuova veste semi-politica, con un presidente eletto tra la file delle famiglie politiche del Parlamento europeo, fatica a ritagliarsi un ruolo e a difendersi dagli attacchi di paesi come la Polonia, che rispondono alle sue raccomandazioni dichiarandosi Stati sovrani. A questo quadro, si aggiungono altre due cause che contribuiscono a decentralizzare in modo disarmonico le competenze e le funzioni dell’Unione. Anzitutto attraverso un’integrazione “per eccezione" concessa a partire dal Trattato di Maastricht fino al Trattato di Lisbona, che ha visto l’Unione non solo procedere a velocità diverse, bensì in direzioni diverse. Si tratta delle tanto discusse regole di “opt-out”, con cui sono state ammesse eccezioni sull’adozione della moneta unica, sull’area di libera circolazione delle persone, in materia fiscale, sulle risoluzioni bancarie e via dicendo. Tutto ciò ha portato a geometrie variabili d’integrazione, generando una confusione estesa geograficamente a tutta l’Unione e una complessità decisionale multilivello difficilmente governabile. La seconda causa riguarda l’opinione pubblica, che si dimostra da un lato sì più interessata alle questioni europee, e tuttavia stenta a declinare tali questioni a livello continentale, rimanendo ancora marcatamente divisa dai confini nazionali con tutte la conseguenze che tale fattore implica per le decisioni prese dai capi di Stato nelle sedi istituzionali europee. Genschel e Jachtenfuchs concludono confermando appunto che nell’UE, a un’integrazione di politiche strategiche, che oggi rimane ancora incompiuta seppur urgente, non corrisponde lo stesso consolidamento istituzionale, territoriale e politico che ha caratterizzate storicamente le altre federazioni nel mondo. Se questa è una strada percorribile, nessuno può dirlo. I pochi passi avanti che si fanno, come il recente accordo su una cooperazione strutturata permanente nel campo della difesa, devono ancora rivelare i propri frutti, se mai lo faranno. Ad ogni modo, di fronte alle paure, quelle sì reali e tangibili, dei cittadini europei, l’Unione rimane allo stato attuale un nano politico e un verme militare, per citare Kissinger, con l’impellente bisogno di essere riformata.