Il Qe e i timori della grande finanza

Carlo Torino

Si tende forse a sopravvalutare la fine del programma di Quantitative easing della Bce. La prossima legislatura sarà detrminante ai fini della definizione del modello di sviluppo economico e sociale che intendiamo perseguire. Sarà essenziale un ritorno alla politica fiscale e agli investimenti.  

È bene ricordare che le note di aggiornamento delle banche d’affari non hanno la medesima valenza epistemologica della Fenomenologia dello spirito. Le loro tesi non costituiscono dogmi di una religione rivelata. Sovente quegli stessi analisti sono vittime di inestricabili “distorsioni cognitive”, incapacità di astrazione, e talvolta di evidente parzialità di giudizio.

Ma veniamo al dunque. Che in questo Paese vi sia un elevato debito pubblico e un problema di crescita economica, è una tesi nota e incontrovertibile. I timori sulla fine del Qe della Banca centrale europea? Sopravvalutati. E in ogni modo già incorporati nelle aspettative degli operatori. Non v’è altro che la politica monetaria possa fare – con i tassi a zero, e un’inflazione prossima all’1% -, se non estendere nel tempo il programma di acquisti pubblici. Ma non pare che il Consiglio inclini verso questa strategia, la quale non avrebbe comunque il pregio di poter incidere sulla crescita potenziale e sull’occupazione. Domandiamoci invece chi abbia maggiormente beneficiato del programma di acquisti della Bce, e quale ne siano le finalità implicite. La risposta è evidente: il sistema bancario. Il Qe equivale nella sostanza a una ricapitalizzazione «occulta» del sistema finanziario. La domanda di titoli da parte della Bce, genera un incremento nelle valutazioni di questi ultimi (detenuti in prevalenza sui bilanci degli istituti di credito), ponendo in essere di riflesso un aumento del patrimonio netto delle banche. Quanto di queste risorse sia confluito nell’economia reale è evidente dal tasso di crescita dell’economia (pressoché in depressione), e da quello della crescita degli investimenti in capitale fisso (sistematicamente negativo fino al 2016).  

La fine del Qe dovrebbe dunque legittimamente preoccuparci qualora non vi fossero i segnali di una politica fiscale di intonazione sufficientemente espansiva che miri a incentivare investimenti (soprattutto pubblici) in istruzione, infrastrutture, e tecnologia. Se non si riuscisse a predisporre un'adeguata riforma del sistema fiscale. Avremmo ragione di preoccuparci, in sintesi, se il prossimo esecutivo non fosse in grado di porre in essere il giusto sistema di incentivi per una crescita sana e inclusiva.

A tale riguardo sono opportune un paio di osservazioni storiche. Negli anni tra il 1998 e il 2007 il tasso di crescita reale medio del Pil è stato dell’1.4%; nello stesso periodo la disoccupazione è drasticamente scesa dal 12,8% al 6% del 2007. La bilancia commerciale in quegli anni si è invece progressivamente contratta: dal 3% del Pil nel 1996, al -1,3%. La compressione nei tassi dovuta all’introduzione dell’euro ci consentì in effetti di vivere un decennio al di sopra delle nostre effettive capacità, indebitandoci col resto del mondo. Quel modello di sviluppo economico era dunque insostenibile, e contaminato alla base da un’evidente distorsione di natura finanziaria. Non a caso la crescita del tasso di produttività, in quegli anni, appare piuttosto stagnante, e continua ad esserlo ancora oggi.

La grande sfida del prossimo governo sarà quella di creare una vera «economia della conoscenza», e in vista di tale scopo occorrerà ottenere flessibilità e margini di spazio fiscale in sede europea. Al tempo stesso, sarà essenziale contribuire a un progetto organico e condiviso di riforma profonda delle istituzioni dell’Unione, perché essa possa somigliare sempre più a quella «società degli spiriti» di Voltaire, a quella «regione nobilissima» come la definisce Dante nel De Monarchia.

Non solo: sarà opportuno ridefinire e ampliare il ruolo della Cassa depositi, nella direzione di un suo maggiore coinvolgimento nel sostegno alle piccole e medie imprese, così come in piani di sviluppo infrastrutturale. Vitale sarà inoltre riuscire a incidere su quell’indefinibile groviglio di rendite di posizione che ingessano la struttura economica del Paese.

In conclusione, dovremmo forse preoccuparci un po’ meno delle periodiche note di aggiornamento delle banche d’affari – spesso intrise di miope riduzionismo finanziario, e di deviazioni non di rado sospette -, prestando maggiore attenzione al modello di sviluppo economico e di società che intendiamo realizzare.