George Blake, nato George Behar, a Rotterdam nel 1922, è morto a Mosca il 26 dicembre scorso (foto LaPresse)

DA OVEST A EST

La felicità del traditore

Paola Peduzzi

La spia George Blake, Le Carré e la serie tv “Le Bureau”. Viaggio nell’insostenibile fascino della doppia vita

E’ successo tutto in un attimo: il binge watching di “Le bureau”, la serie tv sui servizi segreti francesi e sull’agente Malotru con un unico punto debole: l’amore; la morte di John Le Carré e l’inevitabile re-immersione nei suoi libri, a caccia di ricordi e di indizi utili a comprendere il presente e questa Guerra freddina in corso con la Russia; la morte di George Blake, la spia che tradì il Regno Unito per passare con l’Unione Sovietica. E’ accaduto tutto in un attimo, una convergenza inattesa di coperture saltate, testimonianze rubate, torture, un sacco di botte, un sacco di sesso, un romanticismo divorante che fa apparire giusto quel che giusto non è: tradire gli amici, i colleghi, la patria (mogli e mariti non li citiamo neppure: sono i primi a cadere) per andare in cerca di una salvezza che, quando si è fortunati, è soltanto personale. Malotru, Blake, i personaggi di Le Carré: la domanda è sempre la stessa, perché si tradisce, perché ci si nasconde, perché una vita sola non basta mai? “Per tradire, come prima cosa devi sentire un’appartenenza. Io non l’ho mai sentita, questa appartenenza”, ha detto George Blake molti anni dopo essere stato scoperto e condannato per aver tradito i servizi segreti britannici a favore di quelli sovietici. Blake non ha mai sentito l’appartenenza al Regno Unito, perché si è ritrovato con un passaporto britannico quasi per caso e perché il suo tradimento non è stato dettato da un calcolo politico o strategico ma dall’idea che il comunismo fosse l’ideologia da seguire e sostenere.

 

L’alibi del romanticismo ideologico unito a un determinismo granitico nato dalla sua formazione calvinista – il libero arbitrio degli esseri umani non esiste, esiste soltanto la volontà divina – hanno permesso a Blake di salvarsi, cioè di vivere una vita serena e felice, come ha sempre raccontato lui. Il traditore felice, appagato quasi. Non si può dire lo stesso degli agenti inglesi la cui identità Blake ha rivelato ai sovietici: 42 persone, dicono le fonti ufficiali, più di 400 ha ammesso lo stesso Blake. Che ha anche spiegato di aver stretto un patto con Mosca: a queste persone non farete nulla, conoscere la loro identità servirà soltanto a proteggervi. Mosca non ha rispettato il patto: gli agenti scoperti sono stati catturati, lasciati in prigione per molti anni, torturati, a volte uccisi. E’ anche per questo motivo che nei necrologi pubblicati negli scorsi giorni – Blake è morto il 26 dicembre in Russia a 98 anni – ricorre spesso una parola: infame. “Blake era un calvinista devoto che è diventato un comunista”, racconta Simon Kuper, editorialista del Financial Times che ha incontrato Blake una sola volta, nel 2012, ma ha studiato tutta la sua storia costruendo una biografia in uscita a febbraio per Profile Books dal titolo “The Happy Traitor. Spies, Lies and Exile in Russia: The Extraordinary Story of George Blake” (Kuper, che pure vive in Francia, non ha purtroppo visto “Le Bureau”). “Il calvinismo, soprattutto nella sua versione più estrema, sostiene che non esiste il libero arbitrio – spiega Kuper – perché è Dio a determinare ogni cosa. Dio decide quel che facciamo, quindi noi siamo semplicemente suoi strumenti. E il comunismo naturalmente crede che la storia sia predestinata, la volontà umana non può influenzarla. Il calvinismo e il comunismo perseguono l’uguaglianza e uno stile di vita morigerato: per questo il salto di Blake dal calvinismo al comunismo è stato piuttosto piccino”.

 

 

Il salto è avvenuto in una prigione a Seul. Nelle storie di spie, quelle che non tradirebbero mai e quelle che invece lo hanno fatto, ci sono sempre le prigioni, i colloqui con gli altri prigionieri, quell’intimità che scambiamo, anche fuori dalle celle, per sincerità. Nel 1948 Blake lavorava già nell’MI6, i servizi segreti britannici, e andò sotto copertura come viceconsole inglese nella nuova sede di Seul, dove avrebbe dovuto raccogliere informazioni sulla Cina e sulle attività dei comunisti in Corea. Quando scoppiò la guerra di Corea, nel 1950, Blake fu catturato e in carcere si mise a leggere “Il Capitale” di Marx al console britannico Vyvyan Holt, prigioniero assieme a lui, che aveva perso gli occhiali e non poteva leggere da solo. Allora, Blake era già un appassionato della cultura sovietica: aveva seguito un corso a Cambridge pagato dall’MI6 che voleva che l’agente imparasse il russo. Nella sua autobiografia, “No Other Choice”, nessun’altra scelta (un titolo che è un pugno, perché le spie insegnano: c’è sempre un’altra scelta, che è uccidersi per non cedere, per non tradire), pubblicata nel 1990, Blake scrive: “Quello era il periodo in cui diecimila persone morivano alla mia destra e diecimila persone morivano alla mia sinistra. C’era un conflitto enorme e io ero in mezzo. Ho visto la guerra di Corea con i miei occhi, ho visto giovani soldati americani morire e giganteschi Flying Fortress americani bombardare piccoli villaggi indifesi. E quando vedi queste cose, non ti senti particolarmente orgoglioso di essere dalla parte occidentale. Se avessi letto Marx in un contesto diverso, magari in confortevole appartamento di Londra, forse sarei arrivato alle stesse conclusioni. Ma forse non avrei preso decisioni tanto drastiche”.

 

Dopo essere uscito dalla prigione coreana, due anni dopo, Blake fu accolto a Londra con tutti gli onori e poi inviato a Berlino: la sua missione era reclutare funzionari sovietici e della Germania dell’est come doppi agenti. In realtà, il doppio agente era lui: passava informazioni ai britannici, ma soprattutto le passava ai sovietici. Nomi e cognomi, missioni, progetti, come l’Operation Gold, il tunnel che l’MI6 e la Cia avevano costruito sotto il muro di Berlino per intercettare le comunicazioni tra la Germania dell’est e i sovietici. Peter Wright, ex agente dell’MI5, i servizi segreti interni inglesi, ha raccontato nel suo memoir “Spycatcher” che quelle intercettazioni durarono per undici mesi, dal 1955 al 1956, e che permisero di raccogliere così tanto materiale che sei anni dopo gli agenti erano ancora alle prese con le trascrizioni quando vennero a sapere la verità: c’era una talpa, e la talpa era Blake. “Nel gennaio del 1961 – racconta Kuper – Michael Goleniewski, un funzionario del controspionaggio polacco con i baffi a manubrio, disertò e passò con l’occidente. In seguito Goleniewski, nel suo esilio occidentale, disse di essere l’ultimo dei Romanov, il granduca Alexei, figlio dello zar Nicola II. Ma questa è un’altra storia: quando disertò, Goleniewski fornì un mucchio di informazioni. C’era anche un altro doppio agente a Berlino est, che si chiamava Horst Eitner, che aveva lavorato con Blake e che rivelò alcune cose su di lui. Le informazioni di questi due uomini aiutarono l’MI6 a comprendere che Blake lavorava per il Kgb. Nel 1961 Blake fu richiamato dal Libano e interrogato: alla fine confessò”.

 

 

Quella confessione è il motivo per cui Blake si è sempre definito felice e fortunato, il motivo per cui lo stesso Kuper scrive la biografia di un uomo che ha causato danni enormi e lo definisce “il traditore felice”. Questa felicità è uno sfregio se si pensa a che cosa voleva dire allora – ma pure oggi – tradire l’occidente e passare con il Kgb, se si pensa a quanta gente è morta mentre Blake inseguiva e afferrava il suo romanticismo ideologico. La felicità del traditore è insostenibile. Eppure questa felicità sfacciata è il motivo per cui Blake è sempre stato considerato in modo diverso rispetto agli altri famosissimi agenti che tradirono il Regno Unito per i sovietici, i Cambridge Five e in particolare Kim Philby, nome in codice Stanley, che ha ispirato il libro “La talpa” di Le Carré (a sua volta un ex agente dei servizi inglesi la cui identità fu svelata da un traditore). I Cambridge Five erano convinti che l’unico modo per combattere il nazismo fosse sostenere il comunismo e per questo tradirono. Blake no, Blake tradì perché era convinto che il comunismo fosse migliore, il modello che tutti avrebbero dovuto seguire: non è un caso che la prima volta che Blake ha deciso di dare la sua versione dei fatti è stata quando il comunismo è crollato, quando il suo sogno si è infranto.

 

La confessione è tutto in questa storia di infamia e romanticismo. A portarlo fin lì fu Harry Shergold, ex capo della stazione di Berlino, dopo tre giorni di interrogatorio (non immaginatevi Guantanamo: tutto avvenne in un appartamento vicino ai Carlton Gardens di Londra). Blake non parlava, negava. Shergold stava quasi per arrendersi, ma all’ultimo disse: io capisco perché chiuso in una prigione coreana ti sei fatto convincere a collaborare con il Kgb, avevi paura delle torture e dei ricatti, non avevi scelta. “In quel preciso momento qualcosa accadde dentro di me e ancora adesso ho difficoltà a spiegare che cosa fosse”, raccontò Blake molti anni dopo a Richard Norton-Taylor, grande esperto di spionaggio: “All’improvviso dissi che non ero stato torturato né ricattato e che ero andato con il Kgb per mia scelta e che avevo offerto io i miei servizi. La domanda di Shergold toccò un nervo scoperto”. Quel nervo era il disprezzo per le bombe degli americani in Corea, la sensazione di non essere dalla parte giusta, al fondo di tutto: la non appartenenza. Non puoi tradire se prima di tutto non senti l’appartenenza. “Blake era un cosmopolita – dice Kuper – Era nato olandese ma aveva passato gli anni dell’adolescenza al Cairo, suo padre era un ebreo egiziano che aveva combattuto nell’esercito inglese e francese durante la Prima guerra mondiale. Una volta che Blake lasciò l’Olanda nel 1942 e arrivò a Londra divenne un uomo senza patria. Gli piaceva il Regno Unito, era un anglofilo e lo è rimasto fino alla morte, ma non era un patriota. Forse scelse l’Unione sovietica perché cercava una patria cui legarsi emotivamente. Imparò il russo molto velocemente, s’innamorò della cultura russa e delle messe ortodosse. Ma penso che soprattutto Blake diventò un comunista convinto, scelse l’ideologia non un paese”. Blake fu condannato per tradimento a 42 anni di prigione. Dopo cinque, nel 1966, evase. Non fu aiutato dal Kgb, come allora pensarono tutti, ma dai suoi compagni di prigione: due pacifisti marxisti condannati per aver fatto irruzione in una base nucleare americana e un delinquente irlandese.

 

 

Molti in carcere pensavano che la sentenza di Blake fosse “disumana”, erano affascinati da questo signore colto che insegnava agli altri prigionieri le lingue, il russo e anche l’arabo, volevano salvarlo. Così organizzarono l’evasione. L’irlandese, Sean Bourke, era fuori in libertà vigilata, gli procurò un walkie-talkie, e nel giorno stabilito, mentre i carcerati erano a vedere un film, gli disse di calarsi dalla finestra in fondo al corridoio dove c’era la sua cella, di correre lungo il muro di recinzione, lì avrebbe trovato una scala fatta con i ferri da calza. Blake si arrampicò e si ruppe un braccio, di là dal muro trovò il suo amico che lo nascose in vari appartamenti fino a che uno dei due pacifisti (si chiamava Michael Randle, ma la sua identità è stata rivelata moltissimi anni dopo) non uscì di prigione. Fu Randle a portare Blake con sé e la sua famiglia in camper in un viaggio sul continente: scaricò Blake su una strada della Germania dell’est, e da lì lui raggiunse Mosca. Non avrebbe mai più lasciato la sua nuova terra. Il tradimento era compiuto, la felicità era a portata di mano. “Mi ha detto lui di essere un uomo felice – racconta Kuper – E anche a me è sembrato felice. Credo che Blake abbia trovato la felicità prima di tutto nella sua convinzione nella predestinazione: non poteva essere preoccupato di tutte le cose brutte che aveva fatto, perché ogni cosa era predeterminata, secondo lui, probabilmente da Dio. E poi Blake viveva negando. Negava a se stesso il fatto che gli agenti che lui aveva tradito fossero stati uccisi. Anche di fronte a se stesso faceva come se questa bruttura non fosse mai accaduta”.

 

La felicità è insostenibile anche per il traditore che la prova, a meno che non sia in grado di non vedere il male che fa agli altri. Blake ha avuto la fortuna di ritrovare i suoi figli che aveva lasciato nel Regno Unito, ignari della sua doppia vita. Si è risposato in Russia con Ida, ha avuto un altro figlio, la sua prima famiglia lo ha perdonato, la seconda lo ha accompagnato senza accusarlo né condannarlo né tradirlo. Qualcuno ha detto che con la morte di Le Carré e di Blake, nel giro di qualche giorno, si è chiusa una stagione culturale, politica e letteraria legata alla Guerra fredda. Kuper vede ancora degli elementi di attualità: “La Russia spia tuttora l’occidente. E il nostro sospetto sul fatto che degli occidentali lavorino per i russi, per esempio dei politici in Italia o negli Stati Uniti, contribuisce a sminuire la nostra fiducia nelle nostre società. Questo fu l’effetto che la scoperta del doppiogioco di Blake fece sul Regno Unito: colpì la fiducia. Chiunque fosse al potere cominciò a pensare dei propri colleghi: ‘Sei anche tu un agente del Kgb?’. Questo effetto ha aiutato la Russia a indebolire le società occidentali”. Ogni stagione ha la sua storia e le sue spie, conclude Kuper, oggi Vladimir Putin saluta George Blake come un eroe, mentre gli inglesi si tormentano sull’“infame”. Il tradimento capovolge tutto, e il romanticismo, l’amore persino, sono alibi per una felicità negazionista o egoista, perché una vita può non bastare, ne dobbiamo infilare tante in una soltanto, ma non sei davvero felice se non ti fidi.

 

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  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi