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God save the Kingdom

Paola Peduzzi

L’economia va giù, la sterlina va giù e l’umore poi non ne parliamo. Cosa c’è dopo la Brexit? Tra May e Corbyn la prospettiva è il declino (ma una speranza c’è). Com’è che un popolo votato al pragmatismo e all’ottimismo ha perso il suo tesoro. Riflessioni, e una dichiarazione d’amore

La depressione è arrivata lenta, come fa sempre, si è insinuata piano, spegnendo i sorrisi e i trionfalismi, rivedendo al ribasso le stime, qualche virgola che si muove, i numeri vanno giù e poi un pochino più giù, cambiando le parole in bocca alla gente, e poi togliendole del tutto, perché non c’è inglese che abbia ancora la forza di rispondere, quando lo guardi e chiedi: ehi, ma che v’è successo? Scrollano le spalle, abbassano gli occhi, sono feriti: non c’entra nemmeno tanto se eri a favore della Brexit o se eri contrario, la tristezza è collettiva. A nessuno va di essere trattato come un popolo depresso, sperduto, perduto, e c’è chi reagisce con stizza – vi siete visti voi? – e chi si butta in analisi psicologiche, sperando di trovare nel linguaggio del lettino del terapista una risposta che non c’è. Si moltiplicano gli articoli che raccontano l’implosione del Regno Unito, e ancora: non si tratta soltanto di spiegare e valutare la malagestione del negoziato sulla Brexit, i continui passi falsi del governo inglese imprigionato nell’incertezza e nei vari – tantissimi, enormi – egoismi; non si tratta di capire se gli europei si sono fatti prendere la mano dall’istinto punitivo nei confronti degli inglesi e a ogni proposta britannica rispondono con una ramanzina, o un ceffone, a seconda del momento e dell’interlocutore. Queste valutazioni e analisi ci sono, e sono importanti – la Brexit è un processo che si evolve nel tempo – ma il punto che spegne i sorrisi e toglie le parole dalla bocca è un altro, è più profondo, ha a che fare con quel che vedi quando ti guardi allo specchio: sono ancora io?

 

Come può un paese "a disagio con se stesso" e "introverso" ritrovarsi quando si guarda allo specchio? Forse non può

Steven Erlanger ha scritto uno degli articoli più discussi su questa nuova irriconoscibilità del Regno Unito. L’ha pubblicato sul New York Times un paio di settimane fa, e da quel momento il paese si è diviso, ancora una volta: “ha ragione, non siamo più noi” da una parte; “come si permette questo yankee di giudicarci” dall’altra. Parlando con il Foglio, Erlanger racconta di aver vissuto nel Regno a lungo, negli anni thatcheriani e più di recente, in questi ultimi quattro tribolati anni, e di essere giunto alla conclusione che quel che sta accadendo oggi al popolo inglese non è soltanto una conseguenza della Brexit, non è “un’improvvisa” trasformazione avvenuta dopo il referendum del giugno del 2016: molto è accaduto prima. “La Brexit è un sintomo, la risposta a una domanda che si sono posti gli inglesi e che soltanto in parte ha a che fare con l’Europa: quanto e per quanto vogliamo rimanere una società aperta? Il Regno Unito è famoso per la sua società globale, liberale, mercatista” e nel quesito sulla Brexit gli inglesi non si sono tanto chiesti: che rapporto vogliamo avere con l’Unione europea?, quanto: che cosa vogliamo essere oggi? E’ anche per questo, per il fatto che la frattura creata dall’uscita dall’Ue non è solo faldoni e trattati da rinegoziare, ma una ferita culturale profonda, che c’è un abuso di una terminologia legata più alle malattie della mente – o del cuore, o dell’anima – che a quella della geopolitica. Erlanger ricorda i commenti che ha citato nel suo articolo, il Regno Unito viene definito “in crisi di identità”, “a disagio con se stesso”, “scavato dentro”, “profondamente provinciale”, “in suicidio controllato”, “introverso”. E in questo stato, aggiunge Erlanger, il paese “si è perso nel mezzo dell’oceano, non ha più alcuna àncora”, ha deciso di stare da solo e, come spesso accade anche a noi, da solo poi non ci sta stare, o non ci sta bene.

 

Alastair Campbell ci dice che i “paesi cambiano” e che ora “declino e nostalgia" sono i termini che definiscono il Regno

L’articolo di Erlanger è stato molto ripreso e molto criticato, a nessuno piace essere trattato come un malato, con tutti attorno che o si accaniscono – ve la siete cercata! – o rinunciano: non siete riconoscibili, quando poi tornate in voi ne riparliamo. I brexiteers liquidano la questione come il solito “spin europeo”: Bruxelles non vuole accettare il fatto che qualcuno abbia rifiutato il suo progetto comunitario, e cerca ogni modo per rendere la vita impossibile a Londra. Deve far sì che anche gli altri paesi comprendano che lasciare l’Europa non è una passeggiata – per scongiurare l’emulazione – e quindi punisce, sbeffeggia, castiga. Molti di quelli che hanno votato per la Brexit e anche molti che lavorano alla Brexit tecnicamente sono convinti che l’aggressività europea sia la ragione principale dell’assenza di un processo di separazione dignitoso: “Qualsiasi cosa proponiamo, ci dicono comunque di no, non è mai abbastanza, non è mai corretto nella forma ed è insufficiente nella sostanza”, dice una fonte vicina al dipartimento per la Brexit. L’Europa vuol far credere ai suoi paesi membri e al resto del mondo che gli inglesi hanno preso una decisione suicida e che soltanto la benevolenza di Bruxelles potrà – a un costo alto – salvarli da un declino precipitoso e addirittura violento. E’ un’esagerazione, sostengono i brexiteers, che continuano a parlare di un futuro radioso per il Regno Unito solitario, ma al loro interno si dividono, come hanno sempre fatto, anche prima di vincere il referendum: chi sogna un paese ancora più aperto, ancora più globale, e chi invece ambisce a tornare com’era, a quegli anni in cui la globalizzazione non aveva portato la sua rivoluzione, e il Regno, come il resto del mondo, era un po’ più chiuso e rannicchiato su se stesso. La nostalgia è una trappola mortale, per quanto accoccolarsi nel ricordo del passato sia a volte troppo dolce per fare resistenza.

 

Lo “spin europeo” ci sta travolgendo, dicono fonti brexiteers, qualsiasi cosa faccia o proponga Londra “non è mai sufficiente”. Iniziate a dirci quanto la volete pagare, 

“La politica della nostalgia ci sta rendendo irriconoscibili – dice al Foglio Alastair Campbell, spin doctor del New Labour ora grande sostenitore della linea “la Brexit non si farà, riusciremo a tornare indietro” – I paesi cambiano, si trasformano, a volte la paura e l’insofferenza hanno il sopravvento, questo non accade solo in Gran Bretagna, accade in molte altre nazioni. Quel che è deleterio però è che invece che guardare avanti, invece che immaginare soluzioni per il futuro, vince la nostalgia. La voglia di tornare a essere com’eravamo, quando il mondo intorno non ci contaminava, o lo faceva in misura ridotta. Jeremy Corbyn, attuale leader del Labour, è il paladino della politica della nostalgia, ed è per questo che non sono molto ottimista rispetto al futuro”. I paesi cambiano, a volte scelgono di cambiare, ma il Regno Unito, che pure ha deciso con un referendum di trasformarsi e di uscire dal gruppo, non ha risolto il problema cruciale: cambio sì, ma divento che cosa? Tutti i commentatori, gli esperti, gli addetti ai lavori, gli osservatori che ho incontrato e ascoltato in questi cinquecento e più giorni dall’esito referendario ripetono che non c’è una maggioranza parlamentare a favore della Brexit – di nessuna tipologia di Brexit, dura morbida pulita leggera transitoria con accordo senza accordo. Non c’è. Lo spettacolo deprimente dei conservatori che si azzannano tra di loro, con quella “nastiness” che pensavano di aver superato per sempre e che invece è di nuovo qui, brutale, è la rappresentazione di quest’assenza di maggioranza e di quest’assenza di un progetto. Il governo di Theresa May pretende di andare a negoziare con gli europei quando ancora non ha finito di negoziare con se stesso e con il proprio Parlamento, quando ancora non ha risposto alla domanda: cosa vogliamo essere? E’ chiaro che non può ottenere nulla, è come chiedere una promozione senza aver voglia di maggiori responsabilità: non funziona.

 

Steven Erlanger del New York Times ha scritto un articolo molto duro sulla irriconoscibilità inglese.
Al Foglio racconta perché non è ottimista, spiega che la Brexit
è il sintomo di una trasformazione culturale profonda in cui lo “spirito londinese” è rimasto schiacciato, 
e prevede “cinque-dieci anni di declino”

Per un attimo, la May ha cercato di trovare una risposta scartando di lato: non vogliamo essere soltanto la Brexit, il Regno Unito è molto di più di questo divorzio. Certo che lo è, i filobritannici che vivono anche al di fuori del Regno – io, noi – cercano di ricordarselo ogni momento, soprattutto quando sfogliano i giornali annichiliti da tanta rabbia e da tanta improvvisazione e da tanta noia: ma tutto il capitale umano dei civil servants è impiegato per la Brexit. La questione burocratica è gigantesca, ci sono mille trattati che la Gran Bretagna ha siglato all’interno dell’Unione europea e che ora deve rinegoziare singolarmente, il sistema britannico – che nasce, come si sa, votato alla snellezza, in contrasto anche in questo con la burocrazia asfissiante dell’Ue – non ha modo di occuparsi d’altro. Sarebbe bello ristrutturare l’economia, curare gli effetti collaterali della globalizzazione, rivedere il patto con i cittadini: peccato che la Brexit inghiotte ogni cosa, tempo, risorse, idee. E per di più in questo preciso campo gli inglesi scontano quel che una fonte vicina a un leader dei 27 definisce “la grande asimmetria”: un divorzio in cui da una parte c’è il Regno Unito e dall’altra ventisette ex coniugi, che non solo vivono male la separazione, ma hanno molti strumenti per renderla dolorosissima. Parli di pesca e gli europei si presentano con paper, studi, proiezioni, analisi econometriche, mappe con i branchi di merluzzo e i loro cicli di vita: gli inglesi vanno lì con due foglietti, e fanno la figura dello studente chiamato alla cattedra per un’interrogazione a sorpresa. Di fronte a questa mole di cavilli e burocrazia, i secchioni sono gli europei, e pure se gli inglesi si stanno attrezzando e specializzando in “brexitologia”, restano in affanno. Un’altra fonte vicina al dipartimento della Brexit dice che non è vero, che anche questa rappresentazione – lo studente asino – è il prodotto dello spin di Bruxelles. Gli europei sono tanto “spavaldi” ma soltanto perché hanno tra le mani potenti armi politiche e non tecniche: la valutazione dei cosiddetti “progressi sufficienti” per passare al punto successivo della road map del negoziato “è prettamente politica”, continua la fonte, è “arbitraria”, è la mia parola contro la tua, ed è chiaro che gli inglesi sono svantaggiati. Gli europei ribattono che è normale che sia così, l’articolo 50 del Trattato di Lisbona è stato concepito appositamente per rendere la vita impossibile a chi si fosse sognato di lasciare l’Ue (un altro dettaglio: l’articolo 50 prevede di default il “no deal”, se l’accordo c’è è solo il frutto del negoziato, per questo è necessario essere pronti al “no deal” nel marzo 2019: tecnicamente è il piano a), è nell’interesse comunitario che l’uscita sia difficoltosa, ma il piagnisteo britannico è comunque eccessivo: diteci quanto volete dare per il “divorce bill” così vediamo davvero quanto siete sinceri. Show me the money, e si è sempre punto a capo.

 

I brexiteers rumoreggiano, sono terrorizzati all’idea del tradimento. Se Alastair Campbell dice che l’unico motivo di “ottimismo è che la Brexit non si farà e che questo ribaltamento avverrà per forza per via parlamentare”, i giornali pro divorzio sbraitano contro “gli ammutinati della Brexit” (copyright Daily Telegraph), mettendo in prima pagina la foto dei conservatori che stanno “tramando per far deragliare la Brexit” (copyright Daily Express), boicottando il processo parlamentare sulla legge sull’uscita questa settimana e lavorando a quel voto che ci sarà prima del marzo 2019 sull’accordo finale, una delle concessioni più grandi fatte dal governo alla Camera dei Comuni (ci sono moltissimi “se” riguardo a questa concessione: si voterà se ci sarà un accordo con gli europei; se il voto parlamentare sarà negativo, si uscirà comunque dall’Ue, senza accordo: se vi sembra folle è perché lo è). “Perché?” tradire quel che il popolo inglese ha scelto, chiede il Daily Telegraph in un suo editoriale: i parlamentari laburisti sperano di “mettere ogni genere di ostacolo sul percorso della Brexit”, ma almeno sono all’opposizione; i ribelli conservatori non hanno questo alibi, molti anzi avevano votato per l’articolo 50 e ora hanno cambiato idea. Campbell gongola all’idea della rivolta, “noi siamo i nuovi ribelli, i nuovi insurgents”, dice, e il NewStatesman mette in copertina il tradimento salvifico. Fraser Nelson, direttore del magazine conservatore Spectator, si deprime, “se la May non riesce nemmeno a gestire il suo rimanere ferma, inattiva, che speranza ha di guidare il cambiamento più grande che c’è?”. La risposta per ora, anche se le voci sulla fragilità della premier sono ormai un rumore di sottofondo costante e quindi quasi ignorato, è che non c’è nessuno che voglia o possa prendere il posto della May: mettere la faccia adesso su un paese irriconoscibile è un’attività che non affascina nessuno, nemmeno gli spericolati “golpisti” che si annidano dalle parti dei soliti Michael Gove-Boris Johnson (sì, hanno fatto pace, e si chiacchiera persino dell’ipotesi che Gove, l’odiato Gove, diventi cancelliere dello Scacchiere al posto dell’odiato Philip Hammond: si odia moltissimo, nel Regno Unito, e il negoziato non procede, non è un caso).

 

Di rivolta in rivolta però il paese non recupera la propria identità, anzi mostra un volto sempre più sfigurato. Il paese del pragmatismo, dell’ottimismo, del buon senso, questa terra che da sempre è ricca e generosa di ispirazioni culturali che hanno contaminato e dominato il resto del mondo ora è invero bruttino da guardare. Ci sono due elementi importanti che hanno condizionato questi mesi di Brexit. Il primo in realtà riguarda un altro paese che presenta oggi forti tratti di irriconoscibilità: l’America. Disancorandosi dall’Unione europea, il Regno Unito ha pensato di potersi legare con più forza ai cugini americani, con i quali condivide i valori, la vocazione liberale, lo slancio verso l’esterno. Barack Obama, durante la campagna referendaria, disse agli inglesi: se uscite dall’Ue, finirete in fondo alla fila – degli accordi, dei trattati, del potere contrattuale. Donald Trump ha invece detto – quando ha capito che cos’era la Brexit – che il divorzio era un’opportunità, e che la “special relationship” si sarebbe rafforzata, e che lui avrebbe personalmente investito su questa alleanza virtuosa. Purtroppo la parola del presidente degli Stati Uniti non si può prendere troppo alla lettera, il suo ministro del Commercio, Wilbur Ross, è appena stato a Londra a ricordare qualche dettaglio per il negoziato.

 

“Hai visto l'immagine di Theresa May all'Assemblea generale dell'Onu? - chiede Campbell - Guardala, è pazzesca, lei parla e la sala è quasi vuota. A nessuno interessa più quel che abbiamo da dire, rischiamo di diventare insignificanti, gli europei hanno di meglio da fare, siamo diventati barzelletta”

Il Regno Unito deve considerare anche gli interessi degli Stati Uniti nel commercio internazionale, non devono esserci “ostacoli”, che è come dire: badate bene a quel che fate, cari inglesi, ché l’interesse americano viene comunque prima del vostro. Vatti a fidare degli amici, insomma. Il punto più generale è che fuori dal blocco europeo, la solitudine britannica può essere punitiva, perché il Regno perde il suo “leverage”, come dice un analista in una conversazione, e nessuno, non certo gli americani, non certo i canadesi, gli unici che prosperano anche stando da soli, potrà garantirglielo, o restituirglielo. La Gran Bretagna sottosopra si trova a definire il proprio futuro in un momento in cui anche l’America – e quindi un po’ tutto l’occidente – è sottosopra, e questo indebolisce gli inglesi, li condanna a una solitudine ingestibile. Subito dopo la Seconda guerra mondiale, Winston Churchill visualizzò il ruolo del Regno Unito come un quadrato: sapeva che la posizione dominante del suo paese garantita dalla vittoria nella guerra – scrive Fintan O’Toole sul Guardian – non poteva essere mantenuta restando isolati. Così articolò “il suo senso complesso di appartenenza”: se il Regno Unito era un lato del quadrato, un altro era l’America, con la “special relationship” a garanzia di ogni alleanza, il terzo lato era il Commonwealth, che si sarebbe rivolto alla casa madre inglese per trovare una guida, e il quarto lato era un’Europa “unita”, cui il Regno Unito avrebbe fatto da faro e in cui sarebbero stati aboliti “dazi, muri e passaporti”. La Brexit ha alterato questa geometria, nel momento in cui anche gli Stati Uniti stanno rivedendo la loro, “una tempesta perfetta”, dice una fonte brussellese. “Hai visto l’immagine di Theresa May all’Assemblea generale dell’Onu? – chiede Campbell – Guardala, è pazzesca, è presa dall’alto, lei parla e la sala è quasi vuota. A nessuno interessa più quel che abbiamo da dire, rischiamo di diventare insignificanti, gli europei dicono che il negoziato sulla Brexit è importante, ma che hanno anche molte altre cose rilevanti di cui occuparsi. Siamo diventati una barzelletta”.

 

Declino e nostalgia sono le parole che più ritornano nelle conversazioni sulla Brexit e sulla crisi d’identità inglese. La nostalgia fa da lenitivo, ma il declino è la prospettiva. Anche questo è sorprendente: la cultura anglosassone è votata all’antideclinismo, anzi, ha spesso fatto da antidoto alla cultura del declinismo, con il suo ottimismo, con la felicità iscritta nei suoi testi fondativi, con l’impegno nella ricerca del sogno, nella realizzazione del sogno, domani saremo più prosperi, più liberi, più appagati di come siamo adesso. Ora il Regno Unito vede davanti a sé il declino. Non immediato, ma inarrestabile: la Brexit è come un buco in una ruota, dice un commentatore, l’automobile continua ad andare, ma tiene meno la strada, rallenta, alla fine si fermerà. “Cinque o dieci anni di declino”, sentenzia Steven Erlanger, il quale non crede nella possibilità di qualche reversibilità della Brexit. Perché la Brexit è il sintomo, perché è il Regno a essere cambiato, non ora, da tempo: il modello economico e sociale spinto da Londra – il cosmopolitismo, l’apertura, il liberalismo – per la prima volta non è più dominante, “il resto del paese, con la sua visione più buia del futuro – dice Erlanger – con il suo istinto di protezionismo, nei commerci e nella circolazione delle persone, ha avuto il sopravvento”. Ma per un paese che si era già enormemente trasformato con il thatcherismo cambiando del tutto la propria struttura, la propria anima, lanciandosi nell’economia dei servizi, questo ribaltamento ha un impatto enorme. Anche gli altri paesi dell’occidente stanno vivendo questa spaccatura, è evidente e sottolineata in ogni studio elettorale e demografico pubblicato negli ultimi anni: le città più importanti, più dinamiche, più cosmopolite vivono vite separate da buona parte dei paesi d’appartenenza. Vale per le coste americane rispetto alle midlands, vale per Parigi e per il resto della Francia, vale per Milano anche rispetto a buona parte dell’Italia, e l’elenco è lungo. Le ripercussioni si vedono in molti ambiti, nella frattura tra giovani e anziani, tra persone più istruite e meno istruite, tra la bolla degli esperti e il “paese reale”. E’ da qui che sono scaturite molte forze centrifughe, e pure l’illusione di credere che soli, in fondo, si possono avere più opportunità che stando tutti assieme. Molti movimenti generati da impoverimento e rabbia sognano un nuovo nazionalismo, mentre in quegli stessi stati nazione le città d’eccellenza ambiscono a un isolamento produttivo. Il processo di disgregazione rischia di essere contagioso, ma se il divorzio Brexit fa da monito per l’unità – vedete quanto è difficile e poco profittevole separarsi? – allo stesso tempo il Regno Unito si trova a dover a gestire contemporaneamente l’uscita da un gruppo di cui fa parte da decine di anni e una pulsione interna che vuole ristabilire un equilibrio antico, che la sua struttura economica e di sistema ha già ampiamente superato: e anche se i benefici non hanno riguardato tutti, anche se questa evoluzione presenta le sue falle, tornare indietro è impossibile.

 

Il voto del 2016 resterà come testimonianza di quel che accade quando uno scontro culturale decisivo viene trattato
con leggerezza, manipolato
con numeri falsi, condizionato dall'ideologia, dal tifo, dall'ambizione personale. Ma ci sono due elementi che ci fanno dire: il Regno
è sfigurato, ma non perduto 

La gestione di questi impulsi di disgregazione è complessa, e in questo momento la Gran Bretagna appare sprovvista di una leadership adatta. C’è un guaio politico e ce n’è uno economico. I conservatori spaccati si lasciano ispirare dalla nostalgia post imperialista del proprio passato. I laburisti, che dovrebbero fare opposizione al governo – e quindi alla Brexit – offrono una formula d’utopia socialista e si innamorano di un leader, Jeremy Corbyn, che è tendenzialmente euroscettico e sicuramente poco liberale e poco aperturista. In entrambi i casi, di piazza e di governo come si dice, la risposta a uno degli strappi più rilevanti della storia secolare britannica è un ripiegamento su se stessi. Che ha un effetto economico evidente: non c’è stata la catastrofe di cui parlavano i “remainers” prima del referendum sulla Brexit, ma la solidità inglese scricchiola. La sterlina ha perso il dieci per cento del suo valore rispetto al dollaro dal giugno del 2016 a oggi; il costo della vita – l’inflazione – è aumentata e il suo tasso di crescita è il più alto dal 2002 a oggi: secondo la Banca d’Inghilterra, l’indice dei prezzi al consumo è ora aumentato del 3 per cento in gran parte a causa della svalutazione della sterlina; il deficit commerciale ha raggiunto un nuovo picco a ottobre: il calcolo secondo cui una sterlina più debole avrebbe incentivato le esportazioni si è rivelato fallace; il settore dei servizi, il più importante, continua a tenere, quello industriale manifatturiero è altalenante, quello delle costruzioni invece ha registrato il mese scorso un’ulteriore contrazione (sono due di fila nel secondo e terzo trimestre del 2017); l’economia è cresciuta dello 0,4 per cento dal luglio al settembre scorso, un pochino più delle aspettative, ma il dato complessivo di crescita degli ultimi dodici mesi – 1,5 per cento – è sotto alle previsioni, e inferiore all’1,9 per cento registrato prima del referendum del giugno del 2006.

 

I dati non sono catastrofici ma nemmeno rassicuranti, e questo alimenta le spaccature e le interpretazioni differenti, rendendo acido un dibattito e un negoziato che già in partenza non sapevano di buono. Soprattutto questo alimenta l’incertezza, e si sa che laddove non c’è fiducia non si può che dare il peggio di sé, il sospetto che tutto possa precipitare, in un soffio, come i castelli di carte che hanno affollato le copertine dei magazine britannici, fa già da stimolo alla fuga. Le aziende internazionali minacciano di andarsene, le altre città europee fanno campagna acquisti per le agenzie europee e per gli headquarters più prestigiosi, il vantaggio competitivo creato da quell’eccellenza che è la City viene ogni giorno rosicchiato dall’impossibilità di fare previsioni a lungo termine. E ogni volta che il governo di Londra prova a essere accogliente e incoraggiante – lo fa spesso, lo fa in modo sempre più deciso – arriva qualche lite interna, qualche indiscrezione malevola, qualche battuta più perfida della media dall’Europa a gettare di nuovo il paese e tutti noi nel discontento. Se non si può programmare nemmeno la tenuta della May, se moltissime voci europee continuano a ripetere che questo governo non ha futuro e che anzi proprio la sua debolezza compromette l’intero processo negoziale, se non c’è altro capitale politico da spendere, se tutto il malumore “cuoce a fuoco lento”, come dice Erlanger, senza che nessuno intravveda un “game changer”, un elemento che possa cambiare, migliorare, le prospettive, come farà il popolo britannico a ritrovarsi nello specchio?

 

Ho posto questa domanda a molte persone, sempre la stessa, sempre con un po’ di angoscia: siete inglesi, avete una storia di buon senso e di slancio verso il futuro, una storia che parla di opportunità colte ed esportate altrove, una storia che è scandita da una capacità di attrazione senza pari, “voglio andare a vivere in Inghilterra” è da sempre un sogno, è possibile che questo tesoro sia andato perduto, cinquecento giorni di follia, improvvisazione, debolezza e una condanna a dieci anni di declino? Ho ricevuto in risposta altrettanta angoscia, per lo più. Un esperto dice che l’unica possibilità di un cambio di passo – il famoso game changer – è che imploda l’Unione europea stessa, con secessionismi in stile Catalogna e movimenti anti euro e anti Europa che tornano forti (occhi puntati sull’Italia, come al solito), ma è un’ipotesi limite ed è francamente poco augurabile che per salvare gli inglesi si vada a picco tutti noi. Alastair Campbell, e come lui altri anti Brexit, ripete che l’antidoto anti declino è soltanto la consapevolezza di aver fatto una scelta sciagurata e la capacità politica, sociale e culturale di rivederla, senza farsi deprimere dagli europei sprezzanti, ma pure senza morire d’orgoglio impantanati in una decisione sbagliata (viene alla mente il candore di John McCain, allora candidato alle presidenziali contro Obama, nel 2008, fece un errore clamoroso, andò in tv a farsi intervistare e disse: “Ho fatto una cazzata”, fosse così semplice, nella geopolitica, nella Brexit, nella vita). Una fonte di Bruxelles vicina al team dei negoziatori dice che se gli inglesi allungano un pochino la mano e mettono qualche cifra nero su bianco, si può sperare in un accordo e in una transizione in cui gli scossoni ci saranno ma saranno ridotti, e il celebre pragmatismo britannico sarà vivo e forte. Gli altri per lo più scuotono la testa: chi rompe paga, e farebbe bene anche ad aggiustare.

 

Il cinismo del negoziato, la brutalità dello scontro politico, l’incertezza su tutto tranne sul declino imminente non sono riusciti a sopprimere del tutto il romanticismo, o la capacità di innovare. Un appassionato di cultura underground britannica mi ha fatto ascoltare gli Sleaford Mods, il loro ultimo album “British Taco”: sono un duo di Nottingham, parlano di disagio, di alienazione, “delle allucinazioni della nuova working class postmoderna”, sono l’espressione dell’anti ottimismo, alfieri della disfatta, ma – qui sta il paradosso – grazie a questo sound grezzo “che fonde punk hip hop e beat elettronici”, spiega, sono riusciti a rendere il loro messaggio internazionale, “compiendo per l’ennesima volta il miracolo che la musica britannica ciclicamente riesce a realizzare: arricchire, ibridare l’immaginario di gran parte della gioventù e non solo, occidentale prima e mondiale poi”. Gli dico che è il primo che mi dice che qualcosa di buono, questo bistrattato popolo britannico, riesce ancora a produrlo, io non ci capisco molto di questa musica ma voglio fidarmi, e lui dice che ci sono altri esempi: guarda certe città inglesi che sembravano abbandonate all’impoverimento post industriale, finite, destinate alla rabbia e all’isolamento, stravolte dalla trasformazione inglese da paese di minatori e a paese di banchieri, e che invece hanno investito sulla cultura, hanno scommesso sull’identità culturale britannica addirittura, e ora sono un esempio di Cool Britannia versione 2020, un ponte verso il futuro: dice Manchester, penso all’attentato al concerto di Ariana Grande, al ritorno dei fratelli Gallagher, alle liti pre Brexit sulla “Grande Manchester” e la volontà di Londra di esportare il proprio modello in altre città, creando hub culturali e sociali nuovi, e un pochino l’angoscia si placa.

 

Ascolto Noel Gallagher che con i suoi soliti toni sdegnosi e incazzati dice che è ora di finirla con la lagna, con il rimpianto, con gli occhi bassi, forse non si doveva votare ma poi si è votato, e il voto era legale, “f-ing get over it, f-ing get it done and let’s move on”, e un po’ mi placo. Un pochino. E’ fin troppo evidente che il faro inglese per un po’ sarà spento. I declinisti sono fastidiosi ma spesso realisti: le conseguenze della Brexit sono ancora tutte da saggiare, la possibilità che il “British Dream” di cui parla la May possa realizzarsi, anche parzialmente, non è alta, e non riguarda l’immediato. Il voto del 2016 resterà come testimonianza di quel che accade quando uno scontro culturale decisivo viene trattato con leggerezza, manipolato con numeri falsi, condizionato dall’ideologia, dal tifo, dall’ambizione personale: s’è comprata casa senza nemmeno andare a vederla, dice l’ex premier Tony Blair, e di tutte le metafore concepite sulla Brexit questa è la più comprensibile e azzeccata. Non si potrà restituire al venditore, questa casa, non si sa nemmeno se ci sia ancora qualcuno in grado di gestire l’eventuale trattativa – gli interlocutori europei ripetono che romanticismo e speranza sono illusioni – ma i paesi cambiano e poi ricambiano, e quel che sei, se lo sei da secoli soprattutto, nello specchio, alla fine, viene fuori. Vale anche per noi europei, che i conti con la volontà britannica dobbiamo farli senza perderci nei fronzoli e nell’idealismo: vogliono andarsene, lo faranno. Ma pensare che senza gli inglesi stiamo meglio, ecco: questo no.

  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi