Foto tratta dal trailer del film

In Inghilterra un film fa ridere gli inglesi e innervosire i russi

Paola Peduzzi

“The Death of Stalin” piace molto oltremanica, ma da Mosca viene accusato di russofobia. Gli autori del film commentano l’attualità politica e dicono: teniamocela stretta, la democrazia

Milano. Per i giornali inglesi, “The Death of Stalin”, la morte di Stalin, è un capolavoro della commedia, cinque stelle nelle recensioni, “film dell’anno” per il Guardian, quanto basta per far tuonare i russi contro la russofobia che domina nel Regno Unito. Ve li immaginate i russi che fanno un film che prende in giro la morte di un re inglese?, dicono esponenti del governo di Mosca, prendendosela con “la classe intellettuale britannica” che alimenta sentimenti anti russi utilizzando addirittura la morte di Stalin. Gli inglesi ridono imperterriti, il solco culturale che si sta creando tra occidente e Russia è profondo, dominato da antiche ideologie e moderne tifoserie oltre che dall’idea che la libertà sta soprattutto nell’ironia.

 

“The Death of Stalin” fa ridere, molto. E’ un film di satira, e a inventarlo è stato Armando Iannucci, uno degli autori più dissacranti del Regno, creatore di “The Thick of It”, satira del governo inglese con il mitico capo di gabinetto Malcolm Tucker scozzese che mette “fucking” ogni due parole, e più di recente, dall’altra parte dell’Atlantico, di “Veep”, la serie tv sulla vicepresidente Selina Mayer – interpretata da Julia Louis-Deyfrus – che anticipava, inconsapevole, la realtà trumpiana. Ieri sera è arrivato nelle sale inglesi “The Death of Stalin”, atteso e già celebrato grazie anche a una campagna stampa molto divertente, su Stalin e le ossessioni dei dittatori, ma anche con commenti all’attualità della politica britannica attraverso miniclip di anticipazione del film. Durante la conferenza del Partito conservatore a Manchester, quando Theresa May era sotto attacco dei suoi stessi compagni di partito che vogliono scipparle la leadership ma non sanno come farlo, Iannucci & Co. (assieme a lui hanno lavorato al film David Schneider e Ian Martin) hanno tuittato: “Ricordiamo che #TheDeathofStalin racconta di alcuni politici che tramano per sostituire il loro leader e quindi non ha nulla a che fare con gli eventi attuali”. 

 

  

Anche i laburisti hanno avuto il loro commento versione #TheDeathofStalin con una clip su una sala riunioni in cui tutti sono costretti a votare a favore del leader: “Ogni somiglianza è puramente casuale”.

 

Il film è basato sulla graphic novel di Fabien Nury e Thierry Robin e racconta il caos venuto dopo la morte di Stalin, nel 1953, quando i membri del Politburo – in particolare Nikita Kruscev, interpretato da Steve Buscemi, e Lavrentij Berija, interpretato da Simon Russell Beale – si dimenarono in ogni modo per uscire vivi dal vuoto politico. Gli elementi del film sono storicamente verificati, “siamo stati molto rispettosi di quel che è accaduto”, ha detto Iannucci, “c’è sempre la commedia e c’è sempre un senso di terrore e di disagio”. Commedia e tragedia insieme, Berija che istruisce i suoi nel dettaglio su come uccidere i dissidenti è allo stesso tempo comico e terribile, perché sappiamo che poi quei dissidenti furono davvero vittime delle esecuzioni. I personaggi, nelle opere di Iannucci, sono sempre animati da un istinto di sopravvivenza, non hanno dimestichezza con la definizione del bene o del male, cercano di uscire intatti da ogni situazione e appena hanno un po’ più di potere lo maneggiano male, così Berija commette atti terribili, ma continua a essere in qualche modo apprezzato da chi lavora con lui, “perché ricordava sempre i loro compleanni, il che suona un po’ strano”, dice Iannucci. Molti rivedono nel film non soltanto la Russia moderna ma anche i modi spicci, goffi e a volte terrificanti di Donald Trump: Iannucci ha spiegato che il film è nato prima di Trump – come Selina di “Veep” del resto – ma fa un parallelismo tra l’ossessione staliniana per “i nemici del popolo” e quella trumpiana per le fake news. Se c’è un messaggio serio, e c’è, è che “libertà e democrazia non sono assolute e non sono permanenti. Devono essere sempre governate, devono soprattutto essere protette”. 

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  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi