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Ma siete sicuri che poi la Brexit si farà sul serio? Risposta breve: sì

Paola Peduzzi

Il “Brexit bill” divide ma non lascia scampo: ci sarà un numero alla fine del conto, e ci si dovrà accordare su quel numero se Londra vuole che i famigerati “progressi sufficienti” siano riconosciuti dall’Ue

Milano. Abbiamo fatto progressi, dovete riconoscerceli, dice infastidito il ministro britannico per la Brexit, David Davis, intervistato su alcuni giornali europei. A Bruxelles questi progressi non sembrano così consistenti, tutto è rimandato, mentre si discute del tema dirimente, che è quello tipico di tutti i divorzi: i soldi. Il “Brexit bill” divide ma non lascia scampo: ci sarà un numero alla fine del conto, e ci si dovrà accordare su quel numero se Londra vuole che i famigerati “progressi sufficienti” siano riconosciuti dall’Unione europea (al momento le cifre sono lontane anni luce, Londra contesta a Bruxelles il metodo di calcolo, Bruxelles dice che Londra non fa una proposta, insomma siamo alle solite). I rapporti sono freddini, nonostante la cena e gli abbracci di inizio settimana, e il vertice in corso non servirà a migliorarli, l’affanno britannico è fin troppo evidente, e gli europei devono capire se vogliono tenere la linea dura – e rischiare il “no deal” – o concedere del tempo in più ai frettolosi uomini di Theresa May, che con l’attivazione dell’articolo 50 hanno fatto partire un processo senza sapere come gestirlo. Tutt’attorno c’è soltanto una domanda, che è poi quella che corre sulle labbra di tutti, in tutto il mondo, da molto tempo: si farà o no, questa Brexit? La risposta dipende dall’interlocutore, la Brexit è tema da bar sport: poiché i dettagli sono incomprensibili, ci si muove per tifoserie. Ipsos Mori, uno dei più grandi istituti di rilevazione inglesi, è andato a vedere da vicino questo tifo, per capire come si muove, e soprattutto dove si sposta: un campione di quattromila elettori è stato intervistato e seguito per un anno, e il risultato è una mappa di “sei tribù della Brexit”, come le definisce il Financial Times.

 

I “British values Leavers” rappresentano il 10 per cento della popolazione e sono i nostalgici: vivono per lo più fuori dalle grandi città, sono più anziani, votano Ukip o Tory, credono che l’immigrazione abbia deteriorato la qualità della vita inglese (anche se non hanno sperimentato di persona l’impatto dell’immigrazione) e pensano che il Regno Unito fosse molto più bello e vivibile qualche generazione fa, e il distacco dall’Ue potrebbe restaurare quella stagione. I “Working class leavers” rappresentano il 15 per cento della popolazione, vogliono un’uscita brusca dall’Ue, e sono i cosiddetti “rossi”, una media di 45 anni d’età e in media con un reddito più basso: il sentimento anti establishment in questo gruppo è fortissimo, molto più che nel gruppo precedente. I “Moderate leavers” rappresentano il 18 per cento della popolazione e sono contro immigrazione e contro l’establishment (in media sono meno istruiti anche) in misura minore rispetto agli altri sostenitori della Brexit, ma comunque vorrebbero che il processo si concluda con il divorzio.

 

Ci sono poi tre tribù di anti Brexit: i giovani che vivono in città (sono l’11 per cento della popolazione), in particolare a Londra e in Scozia, votano Labour e sono pro immigrazione; i più anziani e liberal (15 per cento della popolazione) che sono la cosiddetta “élite liberale metropolitana”, cioè il nemico numero uno dei brexiteers più determinati; infine ci sono gli anti Brexit “disengaged” (16 per cento della popolazione), che sono giovani (per lo più sotto i 35 anni), hanno lavori precari e non qualificati e soprattutto sono quelli che semplicemente tendono a non votare. In termini generici diremmo che sono quelli che fanno la differenza, se decidono di andare a votare. Sono tendenzialmente europeisti, ma svogliati.

 

La somma delle percentuali delle tribù dice che i pro Brexit battono di un soffio gli anti Brexit, che è un po’ quello che è avvenuto al referendum quasi un anno e mezzo fa. Quindi la Brexit si fa? Pare di sì, dipende sempre come si farà. Ma tutti questi mesi di improvvisazioni e battibecchi non hanno ancora fatto cambiare granché idea.

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  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi