I resti di una bandiera curda data alle fiamme, a Kirkuk (foto LaPresse)

A Kirkuk, senza leadership americana, si sta male

Adriano Sofri

In città sventolano tutte le bandiere tranne quella curda. Non c’è già più il Kurdistan del referendum né quello risuscitato del 2003. Anche a Raqqa liberata dallo Stato islamico i “boots on the ground” si fanno domande

Come accogliere qualcosa che minacciava d’essere un’epica tragedia ed è stata una farsa? E’ il problema dei curdi del giorno dopo. Si può render grazie della scampata tragedia, ci si sente umiliati della farsa. Non vengono date cifre, ma i peshmerga e i civili curdi morti fra la notte e la mattina di lunedì sono più di cento. Loro sono l’ostacolo principale: sono morti per una farsa. Si diffondono immagini di folla festante attorno agli iracheni “liberatori” di Kirkuk. Balle. Da Kirkuk lunedì non sono fuggiti solo i curdi, ma anche in massa gli arabi sunniti, spaventati più dei curdi dall’entrata dei fanatici sciiti Hashd al Shaabi. Nella città sono rientrati, d’accordo coi liberatori, gli Asaish, la sicurezza curda del Puk. Le strade sono piuttosto vuote, camionette Shaabi diffondono a tutto volume dagli altoparlanti le salmodie del martirio di Hussein. Contenti davvero sono i turcmeni sciiti. Ai curdi viene chiesto se erano del Puk o del Pdk: la gente sa qual è la risposta giusta. Lunedì i miliziani sciiti avevano dato alle fiamme le sedi del Pdk.

  

 

Il giorno dopo, mentre solo alcuni dei curdi di Kirkuk, per non perdere case e lavoro, rientravano nella città in cui carnevalescamente tutte le bandiere sventolano tranne la loro, le forze irachene completavano l’opera prendendo possesso pressoché senza colpo ferire (qualche colpo, “20 minuti”, si è scambiato nella periferia di Sinjar) di tutte le aree “contese” già disertate dall’Iraq e occupate dai curdi contro l’Isis: Khanaqin (dove al referendum avevano votato quasi tutti gli aventi diritto e tutti per il Sì), tutti i pozzi di Kirkuk, la frontiera di Makhmur e Gwer, e soprattutto l’intero territorio di Sinjar-Shingal, la culla degli yazidi e la scena della loro persecuzione da parte del Califfato, cui i curdi l’avevano strappato nel novembre 2015 dopo 15 mesi di occupazione. In pratica la Regione Autonoma Curda viene riportata dentro i confini del 2003, e la rivalità-alleanza fra il Pdk di Erbil e il Puk di Suleymanyah che ha governato gli ultimi anni è azzerata. C’è un altro paese, un altro mondo, nel giro di due giorni, in cui l’immaginazione si muove a tentoni come quando va via la luce: esperienza comune qui, ma il guaio è quando la luce va via e ci si chiede che cosa sta architettando il proprio vicino. Dopo l’orgoglio degli anni di prodezza nella guerra all’Isis è venuta la mortificazione dell’onore perduto, quando l’inchiostro sui polpastrelli non era ancora del tutto cancellato. Il Kurdistan del referendum non c’è già più, e non c’è nemmeno il Kurdistan risuscitato del 2003: quello che resta è opaco, forse due gruppi con le mani sulla città, sulle “loro” città, ammesso che nessuno presenti loro il conto. La metà della popolazione curda ha meno di vent’anni: chissà che si diano un appuntamento. La farsa ha un altro grande coautore: Donald Trump. Aveva tuonato contro i pasdaran iraniani burattinai del terrorismo mediorientale e universale. All’indomani ha consentito, lui e l’intera “coalizione”, che un’armata equipaggiata e addestrata dagli Stati Uniti “per combattere l’Isis”, ai comandi dell’uomo forte dei pasdaran iraniani, si impadronisse di Kirkuk, petrolio, gas e antica cittadella monumentale compresi. Gliel’ha detto, benissimo come al solito, John McCain. Sicché a Raqqa liberata si festeggiava, e ci si chiedeva a che ora gli americani scaricheranno anche lì i loro prediletti boots-on-the-ground.

 

  

P.S.: per errore, il mio articolo di ieri era datato da Kirkuk. Ma scrivevo da Erbil. Non sono riuscito ad andare a Kirkuk nella notte né la mattina dopo.

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