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Quale futuro per l'Unione europea?

Matteo Scotto

Il post elezioni tedesche e il vertice bilaterale Italia-Francia del 27 settembre. Chiacchierata con Marco Piantini, consigliere alle politiche europee del presidente del consiglio Paolo Gentiloni 

Marco Piantini, con la Merkel indebolita, Macron criptico sul ruolo della Francia in Europa, il Regno Unito uscente, la Spagna imbrigliata in questioni secessioniste, gli amici del Nord Europa non pervenuti e quelli dell’Est confusi, l’Italia passa da malato a baluardo dell’Europa unita. Ce ne rendiamo conto?
 
Non è venuto meno, in mezzo a tante fragilità, un punto di valore dell’Italia e cioè la continuità delle linee fondamentali di azione in campo internazionale e europeo. Non so se questo basti a parlare di baluardo, ma il sistema paese di idee per politiche europee più efficaci ne ha date non poche, basti pensare a questioni prioritarie come governo dell'Euro e migrazione.
 
 

Per cambiare l’Unione europea, aspettiamo un giorno le elezioni francesi, un giorno quelle tedesche, l’altro quelle italiane. L’Unione sembra essere nient’altro che la somma delle politiche nazionali, nella pretesa illogica che i leader degli Stati rappresentino gli interessi europei, per i quali non sono mai stati eletti. C’è l’intenzione di cambiare tale paradigma o con crescita e inflazione a posto, nella UE siamo tutti contenti?
 
A me sembra che si sia riaperta una discussione su come rafforzare la dimensione europea della politica. Si torna a parlare di candidature dei partiti europei per la presidenza della Commissione, di liste transnazionali. A proposito, quasi nessuno ricorda che l’Italia ha fatto da battistrada, pur diversamente: già nel lontano 1989 fu eletto nel Parlamento europeo su una lista italiana, come indipendente di sinistra, il politologo francese Duverger, e che una italiana, Monica Frassoni è, che io sappia, l’unica a essere stata eletta al Parlamento europeo in paesi diversi, il Belgio prima e l’Italia poi. Detto questo, non farei una contrapposizione totalizzante tra politica europea e nazionale. Gli Stati sono una fonte di legittimazione dell’Unione. Molti osservatori hanno evidenziato semmai la difficoltà complessiva delle politica a mantenere rappresentatività e capacità di agire in un mondo che cambia e che obbliga a rinnovare programmi e a ricostruire culture politiche. La questione europea in questo è un’opportunità.
 
 

Ormai pare esserci consenso per l’integrazione dei piccoli passi, mettendo insomma una pezza dove serve. I vari “pact”, le cooperazioni rafforzate, le cooperazioni strutturate permanenti, un Ministro delle finanze (di quali finanze?), e così via. Non pare esserci una visione di cosa la UE debba diventare, a differenza di quella che ebbero i padri fondatori sessant’anni or sono. Andremo lontano andando avanti così? 
 
Non penso ci sia mai stata un’età dell’oro dell’integrazione. Si è sempre andati avanti subendo anche grandi sconfitte. L’essenziale è che si continui a lavorare tenacemente, dopo anni di crisi che hanno creato fratture tra le opinioni pubbliche europee, a smorzare emozioni e pregiudizi reciproci e su agende concrete. Tanto più dopo le elezioni tedesche. I temi che vengono qui sollevati vanno nella direzione di un approfondimento dell’identità politica dell’Unione. A proposito di visione, va ricordato quanto Helmut Schmidt avesse stigmatizzato i “visionari” anche a sinistra. Eppure il suo forte richiamo a una maggiore determinazione nel costruire un’Europa più unita al congresso della SPD nel 2011 resta nella memoria. Schmidt ricordava l’eterna lotta tra centro e periferie (intesi soprattutto come paesi) nella storia europea. E chiedeva impegno per superare nuove fratture tra europei. Ecco, se uno volesse cercare oggi qualcosa di visionario potrebbe trovarvi vari spunti.
 
 

Tutti parlano di riformare l’Unione europea. Com’è possibile riformare la UE, quando a riformarla dovrebbero essere gli stessi Stati che la vogliono tenere uguale, se non indebolita? Qualcuno se l’è mai domandato?
 
Preferisco uno spirito di ricerca comune, piuttosto che ricette pronte. Ci muoviamo in un terreno nuovo, per tutti. La Commissione europea ha elaborato delle proposte significative, nel Libro bianco prima, poi con il discorso di Juncker. Il Presidente Macron ha tenuto un discorso molto importante, dove ha ripreso e anzi rilanciato con forza molte idee. Non sappiamo quale sarà l’evoluzione in Germania, se e quando nascerà la coalizione Jamaica (n.d.R. CDU-Liberali-Verdi). Sappiamo però che non muta l’impegno tedesco per l’Europa. I quattro grandi paesi dell'Euro si possono profilare come un nucleo di avanguardia, impegnati nel rilancio della UE. Il tema non mi pare quindi da chi possano venire iniziative, quanto piuttosto quali siano le loro possibilità concrete, e chi possa agire come federatore. Per molte riforme, basta il Trattato attuale. Per altre, il metodo della Convenzione europea. C'è il cantiere dell’integrazione differenziata in un quadro istituzionale che unisca e non divida. C'è la necessità di tenere insieme un rafforzamento degli strumenti di governo della moneta con la salvaguardia di politiche e regole per il mercato interno. Ma soprattutto non va smarrito, credo, il senso di concretezza per un rafforzamento della coesione sociale nell’Unione. Dobbiamo, come europei, con i nostri valori, preparare le grandi trasformazioni tecnologiche e sociali che ci troveremo ad affrontare. Intorno alla portata di questa sfida, anche la questione delle risorse, di chi paga per cosa, può essere inquadrata diversamente.