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La forza tranquilla dell'incertezza

Giuliano Ferrara

Merkel ma non solo. Nel paese dei miracoli, a una settimana dalle elezioni è buio pesto sul futuro governo. Allarme democratico? Nein. Tutti, grandi e piccini, vogliono andare al governo. Perché è meglio essere noiosi che essere insignificanti

Dicono che quelle tedesche sono elezioni noiose perché Merkel (Csu/Cdu) è da tempo stabilmente in vantaggio su Schulz (Spd), i dibattiti televisivi non sono abbastanza brillanti, il gut leben, la contentezza del vivere bene, la fa da padrona in un paese dalla carne grassa che si avvia al quarto mandato alla Cancelleria per una seria, misurata, furba, antideologica, pragmatica donna di stato che fa da mamma a un paese pacificato. Ma non è del tutto vero, nonostante le apparenze. Intanto le elezioni sono fatte apposta per presentare sorprese, e gli indecisi anche a stare ai sondaggi sono legioni. Eppoi, come avverrà probabilmente anche in Italia nel 2018, non si sa quasi niente del governo che seguirà, con la differenza che non si fanno inutili psicodrammi. Si sa che sarà la Merkel, salvo colpi di scena imprevedibili oggi, a dirigerlo, perché chi prende più voti è in Germania la prima scelta. Ma quale governo?

Anche i tedeschi nel loro grande e grosso hanno dei problemi. Ovvio. In molti in Germania e in Europa si accaniscono a grattare la facciata e a esporli. Dal primo numero del Foglio, ventidue anni fa, si parla di crisi del modello renano di sviluppo, molta acqua è passata, ma infine se ne può ragionare a ragion veduta e posticipata prima di tutto perché il complesso automobilistico è incappato in difficoltà notevoli: ambientali, per esempio la criminalizzazione del diesel derivata dai test antinquinamento truccati di molte case, Volkswagen in testa, e un passaggio di fase che rende in certo senso obsoleto il grande successo mondiale della grande berlina tedesca, avanguardia del sistema industriale da Stoccarda a Monaco; oppure i mini-job, la cosiddetta precarizzazione del lavoro; oppure l’energia, dopo la decisione di piantarla lì con il nucleare in seguito a Fukushima, che non è piaciuta all’imprenditoria per ragioni evidenti di costi; sacche di malessere sociale all’ombra del welfare o dell’economia sociale di mercato; questioni serie di demografia calante, collegate alla decisione del 2015 di aprire con impeto, seguito da estrema prudenza, le frontiere all’immigrazione; oppure il ruolo di riluttante guida che la Germania dovrebbe assumere, portando al 2 per cento – intanto – il bilancio della difesa, nella politica europea e nella politica mondiale specie dopo la contraddittoria elezione di un pazzo a Washington e di un riformatore a Parigi; eccetera. Non tutto è risolto nel paese dell’occupazione stabilmente alta, del surplus nella bilancia dei pagamenti alle stelle, nel paese che fa la legge nell’Unione europea e la tira fuori dalla crisi dell’euro senza pagare un dazio nazionale troppo pesante, anzi, ma sopra tutto senza far troppo sentire l’egemonia nazionale. Non tutto. Avere i problemi della Germania farebbe gola a chiunque, ma restano problemi, e un quarto mandato immobilista sarebbe l’inizio di una parabola discendente da paura.

Sta di fatto che il paese della governabilità per antonomasia, tot anni a Adenauer e Erhard, tot anni a Brandt e Schmidt, tot anni a Kohl, tot anni a Merkel, e sempre di decenni si tratta, nel paese dei miracoli, dalla ricostruzione alla riunificazione, a una settimana dalle elezioni è buio pesto quanto alla composizione del futuro governo. Allarme democratico? Manco per niente. Si specula, si fanno ipotesi, si espongono preferenze, a Berlino come a Londra e altrove. L’Economist vuole una coalizione con i liberali, guarda un po’, e non si ritrae nemmeno di fronte a una coalizione Giamaica, dai colori nero-verde-giallo della bandiera giamaicana, cioè con liberali e Verdi. Tutto tranne che l’immobilismo di una riedizione della Grosse Koalition con la Spd. Non si sa se ci sarebbero i numeri e la volontà, date le differenze di programma e di cultura. Ma il partito liberale di Christian Lindner (e di Wolfgang Kubicki) fa campagna per il rilancio delle costruzioni e l’abbassamento delle tasse, si presenta secondo la Faz come il partito della protesta borghese, denuncia l’attacco dei Verdi ai liberali stessi, che potrebbe portare all’affermazione come terzo partito degli identitari di estrema destra dell’AfD, dunque a una riedizione della Grosse Koalition con la Spd, però e perciò non esclude affatto la Giamaica, che è come tripartito di eventuale maggioranza l’unica alternativa palatabile in questo sistema di voto. I Verdi accusano i liberali della Fdp di essere un branco di clientelari fannulloni sui temi importanti del futuro come l’ambiente, il clima, l’energia eccetera, a parte la “strage continuata di animali” che si prospetterebbe senza un forte e determinante partito ambientalista e animalista, ma i loro leader Cem Özdemir e Katrin Göring-Eckardt alla fine non escludono nulla, Giamaica compresa.

Sarà noioso, come si dice tra noi mediterranei abituati agli urlatori e allo spirito cazzaro, ma in Germania tutti, grandi e piccini, vogliono andare al governo, tranne la AfD che vuole una rivoluzione passatista in molti sensi e ideologica. E tutti vogliono discutere della data di estinzione del diesel, quando non del povero motore a scoppio, tutti parlano del carbone come fattore in estinzione di energia sporca (così è la vulgata), tutti si preoccupano delle infrastrutture e degli investimenti conseguenti, dell’economia agricola, e per il resto ciascuno difende idee e interessi sociali senza paura né pudore, con un occhio attento all’Europa, che fa dei Verdi alleati naturali di una Merkel che abbia voglia di finire in bellezza con nuove istituzioni di integrazione del bilancio e delle finanze e della fiscalità nell’area dell’euro, e una Fdp più critica ma fino a un certo punto in nome del suo liberalismo di mercato diffidente verso ogni tipo di pianificazione statale, anche sovranazionale. Il paradosso è che i socialdemocratici, che condividono in buona parte il gut leben della Germania d’oggi, appaiono stinti e poco competitivi, sebbene alla fine siano candidati più degli altri a un nuovo governo Merkel. E’ quasi certo che i prossimi quattro anni alla fine saranno decisi dai notevoli poteri di mediazione e d’istinto della Mutti, per il resto è buio pesto. Ma non c’è stupido allarme. La democrazia rappresentativa, si compiace il giornale dell’establishment conservatore, è migliore se sette partiti e sei gruppi saranno costituiti al Bundestag, troppa uniformità non va bene perfino a loro, i grandi uniformi d’Europa. Si può non essere vivaci, ma significativi, come da loro, e invece eccitati ma insignificanti, come spesso da noi.

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  • Giuliano Ferrara Fondatore
  • "Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.