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Al Palazzo di vetro

America first e minacce globali. Esordio confuso per Trump all'Onu

Il presidente americano dice di voler "distruggere" la Corea del nord con l'arma nucleare. Il deal iraniano è "imbarazzante". Il mix di dottrine

New York. Gli Stati Uniti hanno “grande forza e pazienza”, ma saranno costretti a “distruggere totalmente la Corea del nord” se il regime di Kim Jong-un attaccherà gli Stati Uniti o i suoi alleati. Ed ecco che i titolisti di tutto il mondo sono stati istantaneamente accontentati. Con un’espressione trumpiana codificata – “totally destroy” – il presidente degli Stati Uniti ha fatto il suo esordio nella cavernosa aula dell’Assemblea generale dell’Onu, il nucleo operativo della burocrazia inconcludente e dell’umanitarismo globalista che a suo dire ha bisogno di gelidi bagni di realtà. La lezione di Trump è arrivata sotto forma di minaccia belligerante a Pyongyang e al “Rocket Man impegnato in una missione suicida”, dove l’uso del nomignolo gratifica la base e dà qualcosa allo spettacolo. Si è dilungato sull’elenco delle violazioni della “banda di criminali” nordcoreani e ha castigato “le nazioni che non solo fanno affari con quel regime, ma armano, riforniscono e sostengono finanziariamente un paese che mette in pericolo il mondo intero”. Russia e Cina sono state elogiate per l’adesione alle recenti sanzioni dell’Onu, ma in quanto partner commerciali di Pyongyang hanno subìto il rimprovero indiretto della Casa Bianca.

 

Non è il primo leader nella storia dell’Onu che usa il riverito ambone per minacciare un altro stato sovrano, ma in passato sono stati autocrati, dittatori e satrapi illiberali a cimentarsi nel genere, non il leader del mondo libero. Trump s’è impossessato della retorica degli stati canaglia che ha denunciato e gliel’ha scagliata addosso. Dalla vigilia era trapelato che nel discorso al Palazzo di vetro si sarebbe concentrato sulla Corea del nord e l’Iran, e nell’esecuzione Trump ha aggiunto anche il regime di Maduro, sull’orlo del collasso “non perché ha applicato male i princìpi del socialismo, ma perché li ha applicati in modo diligente”. Il presidente ha detto che l’America è “pronta a intraprendere ulteriori azioni” sul Venezuela. Ha chiamato l’Iran uno “stato canaglia” e ha definito l’accordo nucleare “un imbarazzo per gli Stati Uniti”, e non si vede come dopo queste dichiarazioni la Casa Bianca possa continuare a rimanere nei termini del deal. Trump ha barcollato fra due diversi registri e impostazioni ideologiche. Da una parte, nel castigare le “rogue nation” e mettere in guardia da quelle parti del mondo che “sono già all’inferno” ha abbracciato la retorica dell’asse del male e ha fatto appello a categorie universali: “Se i molti giusti non affrontano i pochi malvagi, il male trionferà”. Dall’altra, ha insistito sul principio dell’America First, ha elogiato le diverse culture che la storia ha prodotto, ha eretto monumenti ai particolarismi e ha chiarito che l’America non ha mai voluto “imporre il proprio stile di vita”, limitandosi semmai a ergersi come esempio: “Come presidente, metterò sempre l’America al primo posto, proprio come voi, in quanto leader dei vostri paesi metterete, e dovete farlo, i vostri paesi al primo posto”. Il termine “sovranità” e i suoi derivati sono stati riproposti in modo ossessivo dall’autore del discorso, quello Stephen Miller che alla Casa Bianca è rimasto uno dei pochi custodi della fortezza nazionalista. Il contrasto fra la difesa della sovranità e gli ideali universali nel nome dei quali ha preso a scudisciate i regimi di mezzo mondo – fra questi anche la Siria, senza alcun riferimento alla Russia di Putin – non è sfuggito soprattutto ai trumpisti più intransigenti, che nella Casa Bianca orfana di Steve Bannon si sentono in balìa di una presunta agenda globalista. Richard Spencer, leader della alt-right, ha scritto che “Trump sembra aggiungere ‘realista’ e ‘sovrano’ alle politiche neocon e neoliberal” e ha invitato i follower a non lasciarsi ingannare: “Questa è in sostanza la dottrina Bush”.

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