Xi Jinping (foto LaPresse)

La Cina vuole fermare la crisi nucleare, ma guai a toccare l'interesse nazionale

Eugenio Cau

Pechino prepara un piano B qualora ogni sforzo negoziale dovesse fallire e “il fuoco e la furia” cadessero per davvero sulla penisola coreana

Roma. Di fronte all’intensificarsi della crisi nordcoreana, le opzioni che si parano davanti alla Cina del presidente Xi Jinping sono sostanzialmente due, ed entrambe non piacciono a Pechino: lasciare che l’incontrollabile regime di Kim Jong-un, trovando una sponda altrettanto incontrollabile nel presidente americano Donald Trump, distrugga l’ordine mondiale e trascini Pechino in una nuova stagione di guerre asiatiche, oppure aiutare gli americani a disarmare e forse a neutralizzare il regime di Pyongyang senza ottenere nulla in cambio? Martedì sera, mentre un nuovo report del Pentagono sulle capacità nucleari nordcoreane e un nuovo round di minacce apocalittiche tra Washington e Pyongyang facevano risalire il pericolo bellico nella regione, il ministro degli Esteri cinese Wang Yi sembrava optare per la seconda opzione. “Considerati i tradizionali legami economici tra la Cina e la Corea del nord, la Cina pagherà un prezzo più alto di qualsiasi altro nell’implementare” le nuove sanzioni dell’Onu che cercano di soffocare le entrate del regime dei Kim, ha detto Wang durante il vertice Asean nelle Filippine. Ma “pur di mantenere il sistema internazionale di non proliferazione nucleare e la pace e la stabilità nella regione la Cina, come sempre, applicherà il contenuto delle risoluzioni per intero”. Come a dire: non vorremmo, ma la situazione è così pericolosa che in questa partita stiamo con voi.

 

  

Come il presidente americano Donald Trump ha reso chiaro in decine di tweet spalmati nel corso degli ultimi mesi, se c’è un solo paese al mondo che detiene le chiavi di una risoluzione negoziale e non bellica della crisi coreana quello è la Cina. Pechino è il più importante alleato del regime nordcoreano, attraverso sussidi e commerci finanzia la permanenza al potere della tirannia dei Kim, ha un contatto diretto e costante con la leadership del paese, e per queste ragioni è considerata l’unica potenza dotata di un’influenza efficace su Pyongyang. Sull’altare di questa influenza, Trump ha sacrificato ogni altro aspetto della relazione tra Cina e Stati Uniti, dall’iniziale bellicosità sulle scorrettezze commerciali alle dispute sul mar Cinese meridionale alla trascurabile questione del mancato rispetto dei diritti umani: aiutateci a risolvere il pasticcio nordcoreano, diceva Trump al collega cinese Xi Jinping, e su tutto il resto potremo discutere da ottimi amici. Decine di tweet di lamentazione recenti hanno reso ben chiaro però che le aspettative di Trump su questo versante sono state deluse, e l’ambiguità di Pechino nei confronti del dossier nordcoreano è diventata evidente anche all’artista del deal. Come è noto, Pechino malsopporta Kim Jong-un, leader instabile e poco controllabile, ma considera la sopravvivenza del regime nordcoreano come essenziale per la sua stessa sopravvivenza. Per questo, ogni dichiarazione di buona volontà deve essere soppesata nel suo reale valore. “Abbiamo 11 anni di esperienza” del fatto che la Cina non ci aiuterà ad applicare le sanzioni alla Corea del nord, ha twittato Anthony Ruggiero, ex dirigente dei dipartimenti di stato e del Tesoro che si è occupato della questione nordcoreana.

 

Anche perché Pechino sta già predisponendo un piano B qualora ogni sforzo negoziale dovesse fallire e “il fuoco e la furia” cadessero per davvero sulla penisola coreana. Come ha scritto di recente il Wall Street Journal, da mesi la Cina accumula truppe e prepara nuovi sistemi di difesa al confine con la Corea del nord, compresi bunker antinucleari e droni per la sorveglianza ventiquattr’ore su ventiquattro. Queste misure non servono soltanto a mantenere sicuro il confine e a creare un’eventuale zona cuscinetto. Secondo gli esperti militari, compreso Graham Allison, autore di un libro da poco uscito sulla “trappola di Tucidide”, ovvero sull’inevitabilità che una potenza emergente come la Cina e una potenza egemone come gli Stati Uniti finiscano per arrivare allo scontro militare, la Cina si prepara all’eventualità di un’invasione della Corea del nord nel caso in cui la guerra si scatenasse e il regime dovesse cadere – si prepara, dunque, a un nuovo incontro tra l’esercito americano e quello cinese sulla penisola nordcoreana dopo quello del 1950. Allora, l’esercito del generale MacArthur si fece ricacciare oltre il 38esimo parallelo da una “armata di contadini”. Oggi, l’esercito cinese è protagonista della più imponente modernizzazione della storia recente, e il presidente Xi Jinping durante l’ultima parata militare ha detto che la Cina è ormai pronta a “combattere e sconfiggere” qualunque avversario.

 

La buona volontà cinese sulla questione nordcoreana arriva solo fino a dove inizia il superiore interesse nazionale di Pechino, e come ha scritto su Twitter l’analista americano Patrick Chovanec il cuore della questione sta nella capacità di Washington di “creare una spaccatura tra gli interessi cinesi e quelli nordcoreani”. Tong Zhao, esperto di questioni nucleari del Carnegie-Tsinghua Center for Global Policy di Pechino, ha detto al New York Times che la Cina è ancora convinta che, mettendo sul tavolo concessioni come l’annullamento degli esercizi militari congiunti tra Stati Uniti e Corea del sud, alla fine sarà possibile convincere Pyongyang a sospendere quanto meno i test missilistici. Il ministro Wang ha detto chiaramente che i cinesi lavorano per favorire una soluzione pacifica ma, appunto, Pechino si prepara a ogni evenienza.

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  • Eugenio Cau
  • E’ nato a Bologna, si è laureato in Storia, fa parte della redazione del Foglio a Milano. Ha vissuto un periodo in Messico, dove ha deciso di fare il giornalista. E’ un ottimista tecnologico. Per il Foglio cura Silicio, una newsletter settimanale a tema tech, e il Foglio Innovazione, un inserto mensile in cui si parla di tecnologia e progresso. Ha una passione per la Cina e vorrebbe imparare il mandarino.