Corea del Nord, manifestazione di massa per protestare contro le sanzioni Onu (foto LaPresse)

Il game over coreano

Giulia Pompili

Altro che leader irrazionale. Kim Jong-un ha messo l’America all’angolo e aspetta la prossima mossa

Roma. Game over. Ovvero: se tutta la partita si giocava sulla speranza che la Corea del nord non arrivasse mai ad avere una tecnologia missilistica e nucleare tale da colpire il nemico di sempre, l’America, beh, abbiamo perso. Non solo ormai anche l’intelligence americana crede che Kim Jong-un abbia miniaturizzato le testate atomiche – e dunque è in grado di istallarle sui missili balistici intercontinentali – ma secondo il report diffuso dal Washington Post l’altro ieri, Pyongyang avrebbe una sessantina di testate, molto più di quelle che si credeva poco tempo fa, cui va aggiunta l’incredibile potenza di fuoco dell’artiglieria.

   

“I told you so”, ve l’avevamo detto, ha scritto giovedì su Foreign Policy Jeffrey Lewis, ex direttore del dipartimento per la non proliferazione della New America Foundation, ora capo del settore Asia orientale al Centro per gli studi sulla non proliferazione, nonché fondatore del noto blog Arms Control Wonk. In una lunga e chiarissima analisi, Lewis spiega quello che nell’ambiente degli studiosi di affari nordcoreani si cercava di spiegare già da tempo: è inutile affannarsi in una corsa senza fine per la deterrenza, abbiamo perso. Game over. E il fatto che il report dell’intelligence svelato dal Washington Post sia finito in prima pagina può essere giustificato solo da un fatto: “Vivevamo in una negazione collettiva”. “La Corea del nord ha eseguito cinque test nucleari. Sono parecchi. Guardando agli altri paesi che hanno fatto lo stesso numero di test, ci saremmo dovuti aspettare che la Corea avesse armi atomiche abbastanza piccole da armare missili balistici e che fosse sulla strada giusta per testare armi termonucleari”, scrive Lewis.

 

È poi un’opinione diffusa, spiega Lewis, che il primo test atomico, quello dell’8 ottobre 2006, fosse fallito, e anche gli altri quattro non fossero abbastanza potenti: “Ma c’è sempre un’altra possibilità”, dice Lewis, e cioè quella che in questi anni Pyongyang si sia concentrata su un altro tipo di tecnologia, ma più sofisticata, per esempio Bombe compatte che hanno bisogno di modeste quantità di plutonio. “I risultati deludenti dei primi test nucleari nordcoreani non erano il risultato della loro incompetenza, ma della loro ambizione. Così, mentre il mondo rideva dei primi esperimenti, Pyongyang stava imparando – e molto”. Dunque la negazione collettiva ci ha portati fin qui, undici anni dopo. E ora? “Alcuni miei colleghi ritengono ancora che gli Stati Uniti possano persuadere la Corea del nord ad abbandonare i programmi nucleari e missilistici. Non sono così sicuro. Credo che dovremmo accontentarci di ridurre le tensioni in modo da vivere abbastanza a lungo per occuparci di questo problema. Ma c’è solo un modo per capire chi ha ragione: parlare con i nordcoreani”.

  

Oltre ad aver raggiunto lo status di potenza atomica, è necessario riconoscere che la strategia di Kim Jong-un è vincente, soprattutto da quando ha come interlocutore un presidente umorale che parla un linguaggio aggressivo e semplice. Ieri il leader nordcoreano è riuscito a mettere nell’angolo Washington, in una trappola un po’ complicata da spiegare ma che chiarisce un punto: un disegno c’è, altro che irrazionalità. Dopo la famosa frase di Trump sul “fuoco e la furia” (quelli che avrebbe incontrato la Corea del nord nel caso in cui avesse proseguito con le minacce), Pyongyang ha diffuso un comunicato che i giornali hanno titolato così: Kim Jong-un pronto ad attaccare Guam.

 

In realtà, a leggere bene la comunicazione ufficiale del comandante delle Forze strategiche nordcoreane, Kim Rak-gyom, Pyongyang ha predisposto l’ennesima operazione sul campo: si tratta del test “operativo” di quattro missili balistici a medio e corto raggio che dovrebbero sorvolare il Giappone e cadere a 40 chilometri da Guam, previsto per metà agosto. Non è un attacco, ma un avvertimento – e al tempo stesso una provocazione. Trump adesso ha due strade: la prima è quella di lasciare che Kim Jong-un faccia la sua esercitazione vicinissimo al territorio americano. La seconda è abbattere i missili, ma nessuno ha la certezza che i sistemi americani riescano a colpirli tutti e quattro. E lo stesso abbattimento, non sarebbe un atto di guerra? Eccola, la trappola.

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.