Ma Trump quanto detesta il dossier Afghanistan, che gli paralizza la Casa Bianca

Daniele Raineri

Il presidente si sente incastrato in una sconfitta, respinge i consigli, vuole le miniere afghane e licenziare un generale. La “soluzione Blackwater”

Roma. Il presidente americano, Donald Trump, detesta il dossier Afghanistan perché dice che l’America sta perdendo (e quindi anche lui), non vede un ritorno utile dalla situazione (è soltanto una magagna enorme ereditata dai suoi predecessori), non riesce a orientarsi tra i consigli che riceve e quindi è in ritardo di tre settimane sulla decisione che riguarda la strategia da adottare – che era stata annunciata come pronta a metà luglio e che da allora è sospesa nell’incertezza. Come se non bastasse, la questione Afghanistan è anche diventata il fronte di scontro principale tra le due anime inconciliabili del suo staff, rappresentate da un lato dagli ex generali pragmatici come il capo del Pentagono Jim Mattis e il consigliere per la Sicurezza nazionale H.R. McMaster e dall’altro dal populista nazionalista Steve Bannon.

 

Gli incontri ristretti alla Casa Bianca per decidere la strategia sono diventati uno show di frustrazione crescente, a giudicare dalle informazioni che trapelano. Trump respinge i suggerimenti degli esperti, li accusa di non servire a nulla e – secondo un resoconto fatto dalla rete Nbc dopo una riunione del 19 luglio – cita contro di loro un aneddoto che riguarda uno dei suoi locali newyorchesi preferiti, il Club 21, che ingaggiò un costosissimo consulente e chiuse per un anno per riammodernare i locali “quando invece avrebbe potuto ascoltare i suoi camerieri, che gli avrebbero dato indicazioni migliori: ingrandire le cucine”. Per questo motivo, dice Trump, “farei meglio ad ascoltare i soldati che sono laggiù piuttosto che voi”. Il presidente vuole licenziare il generale americano che comanda le operazioni in Afghanistan, John Nicholson, ma non ha un motivo preciso e per ora si è trattenuto – anche se è facile capire quanto precario ora debba sentirsi il generale, nel suo quartier generale di Kabul. Mattis e McMaster difendono Nicholson e chiedono un aumento delle truppe, ma devono guardarsi da Steve Bannon, che non soltanto è contrario al maggior coinvolgimento perché vuole per l’Amministrazione un’impostazione isolazionista secondo lo slogan “America First”, ma ha anche motivi personali per fare la guerra a McMaster. L’ex generale ha estromesso Bannon dal consiglio per la Sicurezza nazionale e ha mandato via tre consiglieri considerati troppo vicini a Bannon e al generale Mike Flynn, che era un alleato di Bannon. Come risposta, il sito Breitbart – che fa capo a Bannon – ha cominciato una campagna per fare licenziare McMaster. Le riunioni per approvare la strategia afghana, che comprendono sei-sette persone incluse Bannon e McMaster, devono essere piuttosto movimentate. Dopo l’incontro movimentato del 19 luglio il capo del Pentagono Mattis – che secondo i suoi aiutanti digerisce i periodi peggiori di crisi con camminate solitarie – ha fatto la sua passeggiata più lunga. Mattis ha una delega da parte di Trump per aumentare di circa quattromila il numero di soldati americani in Afghanistan, ma per ora l’ex generale si è astenuto dal farlo per non forzare la situazione già delicata. C’è anche un piano alternativo, proposto dall’ex fondatore della compagnia di contractor Blackwater, Erik Prince, che prevede l’invio in Afghanistan di 5.500 contractor al posto dei soldati. L’unica prospettiva che interessa Trump per il momento è la possibilità di diventare rivali dei cinesi nell’estrazione di alcuni minerali preziosi in Afghanistan – a questo scopo un team dell’Amministrazione è già stato formato e istruito – che secondo il presidente potrebbe dare una copertura positiva allo sforzo bellico contro i talebani. Su una cosa Trump ha ragione: in questo momento i guerriglieri islamisti sono in vantaggio su governo afghano e americani.

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  • Di Genova. Nella redazione del Foglio mi occupo soprattutto delle notizie dall'estero. Sono stato corrispondente dal Cairo e da New York. Ho lavorato in Iraq, Siria e altri paesi. Ho studiato arabo in Yemen. Sono stato giornalista embedded con i soldati americani, con l'esercito iracheno, con i paracadutisti italiani e con i ribelli siriani durante la rivoluzione. Segui la pagina Facebook (https://www.facebook.com/news.danieleraineri/)