Il generale Khalifa Haftar

I salafiti di Haftar

Daniele Raineri

Al generalissimo libico di Bengasi piacciono i duri islamisti, ma devono essere molto alleati con lui

Roma. C’è un fraintendimento a proposito del feldmaresciallo libico Khalifa Haftar, che la settimana scorsa ha minacciato di bombardare le navi italiane al largo di Tripoli. Crediamo che Haftar sia il solito uomo forte arabo in guerra contro gli islamisti, ma la situazione non è così: è vero che Haftar lotta contro un tipo di islamisti, ma abbraccia allo stesso tempo un altro tipo di islamisti (abbraccia nel senso che li favorisce, ne riceve appoggio e intrattiene con loro un’alleanza vantaggiosa) e da quando c’è lui al potere la città di Bengasi – che è il suo centro operativo – è diventata molto più rigida di prima dal punto di vista religioso. Questi islamisti pro Haftar sono i salafiti cosiddetti quietisti, vale a dire che seguono un’interpretazione dell’islam che chiede loro di stare sempre e comunque dalla parte di chi detiene il potere e quindi anche di schierarsi contro gli islamisti eversivi – quindi contro i gruppi che vogliono scalzare le autorità in nome della religione, siano essi i Fratelli musulmani oppure lo Stato islamico. Questi salafiti hanno ricevuto anche una fatwa dal loro mentore in Arabia Saudita che li autorizza ad appoggiare la campagna antijihadisti del feldmaresciallo e godono dell’appoggio – meno spirituale e più materiale – degli Emirati arabi uniti. Il risultato è che nell’est della Libia molti aspetti della vita di tutti i giorni cadono in modo progressivo sotto il controllo dei salafiti. Per esempio, si può ricordare un rogo di libri che a gennaio fece scalpore in tutto il paese, i libri furono bruciati perché considerati pericolosi – autori come Dan Brown e Paulo Coelho – oppure perché “facevano propaganda a favore dello Stato islamico creato dagli ebrei”, che è una dichiarazione che se da un lato suggerisce uno zelo apprezzabile contro l’Isis dall’altro fa intravedere qualche problema di antisemitismo.

 

La fatwa che nel 2014 spinse i salafiti ad arruolarsi con l’operazione Dignità definiva Haftar come “guardiano legale” della Libia, un titolo che risuona anche oggi come un ostacolo al processo di riconciliazione con la parte ovest del paese. La brigata combattente salafita – che si chiamava Tawhid, vale a dire “monoteismo” – fu presto sciolta e i suoi membri sparsi negli altri reparti dell’esercito nazionale libico di Haftar, e questo ha accresciuto la loro influenza. A febbraio, dopo la visita di un predicatore saudita, un governatore militare nell’est della Libia ha imposto a tutte le donne il divieto di partire dall’aeroporto di Labraq senza un accompagnatore maschio, secondo la dottrina musulmana più stretta – poi però ha dovuto ritirare il divieto a causa della reazione locale molto sdegnata. Ma la tendenza è quella, i salafiti ormai dominano il discorso religioso a Bengasi e per loro la tentazione di dare strattoni è ricorrente: a inizio luglio hanno emesso una fatwa che ha scatenato molte polemiche perché definiva i libici della minoranza berbera come “infedeli e fuori dall’islam”. I berberi hanno protestato, “è come dare l’autorizzazione al nostro genocidio”, hanno detto.

 

Così, dall’Italia continuiamo a osservare il feldmaresciallo Haftar attraverso le lenti delle sue grandi alleanze internazionali, con il governo egiziano di Abdel Fattah al Sisi, con il governo francese di Emmanuel Macron e con quello russo di Vladimir Putin, ma trascuriamo le sue alleanze interne. C’è chi dice che senza l’aiuto dei salafiti Haftar non sarebbe riuscito a vincere la battaglia per riprendere il controllo di Bengasi (che forse non è ancora davvero vinta, visto che a luglio ci sono stati circa novanta morti). In questi mesi c’è stato uno stillicidio di video di esecuzioni di prigionieri a Bengasi compiute da un partner del generale, Mohamed al Warfalli, che è uno di questi alleati salafiti di Haftar, ma in pratica non c’è stata reazione. La solita priorità che sta bloccando il medio oriente e il nord Africa – che è: sradicare lo Stato islamico – fa passare tutto in secondo piano.

 

Anche dall’altra parte della Libia, nella Tripoli di Fayez al Serraj, ci sono milizie salafite. Il più importante corpo di guardia della capitale è la forza Rada (“Deterrenza” in arabo) di Abdel Raouf Kara, ha un’impostazione molto salafita ma è decisiva nella lotta al terrorismo. Insomma, il vecchio schema laici contro fanatici in Libia non funziona come in altri posti.

  • Daniele Raineri
  • Di Genova. Nella redazione del Foglio mi occupo soprattutto delle notizie dall'estero. Sono stato corrispondente dal Cairo e da New York. Ho lavorato in Iraq, Siria e altri paesi. Ho studiato arabo in Yemen. Sono stato giornalista embedded con i soldati americani, con l'esercito iracheno, con i paracadutisti italiani e con i ribelli siriani durante la rivoluzione. Segui la pagina Facebook (https://www.facebook.com/news.danieleraineri/)