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I numeri della relocation, quel che non ha funzionato e la prossima battaglia dell'Italia

David Carretta

Il problema dell’accoglienza “in un paese solo” e la resistenza di macron spiegano perché ci vuole un approccio strutturale alla crisi dei migranti

Bruxelles. Come nel 2015, quando riuscì a far passare la ridistribuzione dei richiedenti asilo tra gli stati membri dell’Unione europea con il programma delle relocation, l’Italia rischia di condurre una battaglia puramente simbolica con la minaccia di chiudere i porti agli sbarchi di migranti raccolti in mare dalle navi delle organizzazioni non governative. “Siamo di fronte a numeri crescenti che alla lunga potrebbero mettere a dura prova il nostro sistema di accoglienza”, ha detto ieri il presidente del Consiglio, Paolo Gentiloni, dopo un incontro a Berlino con Angela Merkel e altri leader europei per preparare il G20. Con le missioni sotto bandiera europea Triton e Sophia “abbiamo internazionalizzato le operazioni di search and rescue (ricerca e salvataggio, ndr), ma l’accoglienza è in un paese solo” e “questo contrasto” mette l’Italia “sotto pressione”, ha spiegato Gentiloni.

 

L’obiettivo dell’offensiva lanciata mercoledì, quando l’ambasciatore Maurizio Massari ha notificato alla commissione la possibilità di chiudere i porti, è di fare in modo che altri stati membri accettino di far sbarcare i migranti sul loro territorio. La commissione ha risposto di sostenere l’Italia e di essere pronta a fornire linee guida sugli sbarchi, ma serve una “discussione politica” che dovrebbe tenersi in una riunione informale dei ministri dell’Interno la prossima settimana. Dentro lo stesso governo italiano tuttavia c’è scetticismo: al massimo “otterremo misure simboliche”, spiega al Foglio una fonte diplomatica. Emmanul Macron a Berlino è stato chiaro sul fatto che le cose non cambieranno. “Non dobbiamo confondere le cose”, ha detto il presidente francese: “Tutti i paesi devono dare un contributo per i rifugiati per motivi politici”, ma “l’80 per cento del problema immigrazione che descrive il collega italiano viene per motivi economici”.

 

Non sarà dunque Macron a aprire i suoi porti alle navi di migranti. Con i paesi nordici, la Francia aveva imposto di designare l’Italia a porto sicuro come precondizione per partecipare alle missioni Ue. Le regole di ingaggio di Triton e Sophia si possono modificare solo all’unanimità. Quasi tutti gli altri paesi europei affacciati sul Mediterraneo – quelli della cosiddetta “cooperazione regionale in materia di sbarchi” – di fatto sono fuori gioco. Malta e Cipro sono isole troppo piccole. La Grecia deve smaltire gli arretrati di più di un milione di migranti del 2015 e 2016. Spagna e Portogallo potrebbero far attraccare qualche imbarcazione. “Concederemo tutto l’aiuto possibile all'Italia”, ha promesso il premier spagnolo, Mariano Rajoy. Ma, come con le relocation, i numeri dovrebbero fermarsi a qualche migliaio, a fronte dei 181 mila migranti sbarcati in Italia nel 2016 e dei 76 mila nel primo semestre del 2017.

Se le relocation non hanno funzionato non è solo colpa della Polonia e dell’Ungheria, che rifiutano i richiedenti asilo da Italia e Grecia, o degli altri che li accettano con il contagocce. All’Italia era stato promesso di trasferire quasi 40 mila richiedenti asilo, ma il governo ne ha trovati appena 8.600, addirittura meno dei 12.942 che gli altri paesi sono pronti ad accogliere, secondo i dati dell’ultimo rapporto della commissione. Colpa del principale criterio del programma: sono eleggibili i migranti delle nazionalità che hanno almeno il 75 per cento di tasso di riconoscimento di protezione internazionale a livello Ue. All’inizio erano solo siriani, iracheni ed eritrei. Oggi non si sono più gli iracheni, mentre si sono aggiunti i rifugiati da da Antigua e Barbuda, Bahrain, Grenada, Guatemala e Yemen. Solo che la rotta del Mediterraneo centrale è utilizzata dai migranti dell’Africa sub-sahariana. Secondo la commissione, in Italia ci sono appena 1.700 richiedenti asilo pronti a partire verso altri paesi, 700 stanno per essere registrati e forse si potrebbero aggiungere 2.500 eritrei arrivati nel 2017.

 

A settembre, quando scadrà il programma di relocation, l’Italia avrà trasferito meno migranti di quanti ne sono sbarcati nell’ultimo fine settimana. Sono numeri che non bastano a risolvere una crisi migratoria la cui gestione – agli occhi di Bruxelles – deve passare da emergenziale a strutturale. “L’Italia dovrebbe investire di più nell’integrazione e formazione dei rifugiati e raddoppiare gli sforzi su campi di detenzione e espulsioni dei migranti economici”, dice un funzionario europeo. Il resto – dalle relocation alla cooperazione regionale sugli sbarchi – “sono palliativi con un alto valore politico ma scarsi risultati”, spiega il funzionario.