Il minareto della moschea al Nuri, a Mosul (foto LaPresse)

A cosa badare ora che lo Stato islamico ha raso al suolo la moschea di Mosul

Redazione

Il minareto pendente e la sconfitta dell'Isis

Milano. La moschea di Mosul è il simbolo della città, in tutti questi anni in cui abbiamo scritto, raccontato, osservato le vicende irachene, Mosul era la sua grande moschea di al Nuri, con quel minareto gobbo, riconoscibile ovunque, sintesi assoluta di un paese, di un mondo, pericolante, un posto fisso nell’immaginario su questa città millenaria la cui conquista e caduta e riconquista ha scandito gli anni Duemila di guerra. Ora non c’è più, la moschea, è stata fatta esplodere dallo Stato islamico nella Notte del Potere, una delle date più sacre della religione musulmana: è la notte in cui il Corano fu rivelato a Maometto. Ma le truppe irachene erano a cinquanta metri, non c’era tempo, non c’era spazio, stavano per strappare la bandiera nera e mostrare finalmente che la vittoria è a un passo, anche se la città vecchia è ancora in mano al gruppo di al Baghdadi e chissà quanto tempo ci vorrà prima di poter dire che sì, Mosul è liberata. Così la moschea è esplosa, con la sua storia, la sua simbologia, sunniti contro sciiti, all’ombra del minareto storto.

 

 

Lo Stato islamico ha smentito naturalmente, dice che sono stati gli americani a tirare giù quel capolavoro dell’islam, è noi contro di loro, non l’avete ancora capito?, ma circolano delle immagini piuttosto eloquenti su quel che è accaduto, e anche se ormai vale tutto, nel rincorrersi di fake news e manie complottarde, i bombardamenti non si vedono proprio. Semmai si capisce che la moschea era stata tutta minata, e che lo Stato islamico era pronta a farla saltare in aria: se non può più essere nostra perché la stiamo perdendo, perché noi tutti stiamo perdendo, che non sia di nessun altro. Non degli iracheni con il loro esercito arruffato, non degli iraniani, sia mai, con quella loro fame di potere e la brama di tornare qui, in Iraq, in pianta stabile, come vuole il sogno della mezzaluna sciita.

 

Nessuno parlerà più su questo pulpito, ha deciso lo Stato islamico, lasciando che il discorso del 2014 che il califfo al Baghdadi tenne proprio qui resti come epitaffio, dopo di noi nessuno. E tutti invece erano pronti a entrare, ad arrivare, a farsi fotografare, immortalare, e a urlare al mondo che lo Stato islamico sta perdendo, voleva un territorio tutto suo, uno stato appunto, e le sue capitali invece cadono, cadono, cadono. Sirte in Libia, Raqqa in Siria, Mosul in Iraq: il lavoro non è finito, certo, si combatte e si combatterà, e col tempo l’occidente ha imparato a prendere le misure dei suoi successi e soprattutto degli annunci dei suoi successi. Ma se si guarda la mappa, se si prova a unire i puntini del califfato, si vede chiaro che si è ristretto, che è in affanno, e che arriva a un atto considerato anti islamico, ironia brutale (far esplodere una moschea simbolo dell’islam), pur di non lasciare al nemico uno spazio in cui celebrare. Il premier iracheno al Abadi ha detto che la distruzione della grande moschea è la manifestazione chiara della sconfitta dello Stato islamico: noi che viviamo da questa parte del mondo, con l’allerta altissima e le schegge dell’ideologia jihadista a colpirci forti, a farci pensare che forse quest’estate mandare i figli a studiare inglese a Londra non sia furbissimo, facciamo fatica a realizzare che lo Stato islamico sta perdendo. Ma i fatti lo dicono, e ora semmai è il momento di pensare a come si vuole gestire il dopo, per evitare che tra qualche anno dalle ceneri della bandiera nera risorga chissà quale altra brutalità. A Mosul i cittadini vessati da anni e anni di guerre e ribaltamenti alzano gli occhi e non riconoscono più l’orizzonte, c’è chi ha pianto come se fosse morto un figlio, e qui di figli ne muoiono tanti, non è un’espressione che si usa a caso. Anche a questo si dovrà badare, quando lo Stato islamico sarà infine cacciato, a far sì che ci si riconosca di nuovo.

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