Donald Trump (foto LaPresse)

Trump s'affida a una squadra di avvocati sgangherata ma fedele

Kasowitz, Dowd e Sekulow difendono il presidente con toni aggressivi e argomenti deboli. La lezione di Roy Cohn

New York. Jay Sekulow ha passato una domenica pessima. Donald Trump ha chiesto al nuovo membro della sua squadra di avvocati di andare negli studi degli show televisivi del weekend a difenderlo, al termine della settimana in cui ha ammesso via Twitter che è sotto inchiesta (per ostruzione alla giustizia) dopo aver passato mesi a convincere il direttore dell’Fbi a dire pubblicamente che non era sotto inchiesta (per la collusione con il Cremlino). Se sembra tutto contorto e contraddittorio è perché lo è, e l’obiettivo di Sekulow era quello di andare in televisione a mettere un po’ d’ordine. Missione fallita. Chris Wallace, navigatissimo anchorman di Fox News e teoricamente ospite docile per un alleato di Trump, ha fatto esplodere il bubbone sulla faccenda basilare: Trump è sotto inchiesta oppure no? Dopo avere detto di sì, Sekulow ha sostenuto fortissimamente che no, non è sotto inchiesta. Nessuna indagine è stata notificata ai legali del presidente, e la sua dichiarazione “I am being investigated” va presa come una pura ipotesi legale, una sottile finzione giuridica usata dal presidente per illustrare la ratio capziosa che un eventuale procedimento a suo carico esibirebbe. Wallace non ha bevuto nemmeno un sorso della versione dell’avvocato, ed è subito diventato un meme il segmento in cui lo mette all’angolo per le evidenti contraddizioni in cui si annoda in diretta televisiva. A un certo punto contrattacca piccato spiegando che non ama che gli altri gli mettano le parole in bocca, ma l’incolpevole Wallace non suggerisce alcuna inferenza né attacca addosso al difensore di Trump etichette che non gli spettano. Sekulow è andato in televisione, ha detto tutto e il suo contrario, s’è arrabbiato perché qualcuno glielo ha fatto notare, ed è tornato a casa.

  

L’esordio tempestoso dell’avvocato è la rappresentazione fedele di un team legale che fin qui non ha mostrato la brillantezza che ci si potrebbe attendere dai difensori del presidente degli Stati Uniti. Ma per Trump, si sa, la fedeltà vale più della competenza, e un profilo come quello di Sekulow sembra garantirla, anche se non ha mai rappresentato Trump prima. Per la verità, in trent’anni di carriera non si è mai occupato di giustizia criminale e non ha difeso politici finiti sotto lo scrutinio di un procuratore speciale. A Washington c’è una nicchia di avvocati-rockstar a cui l’élite della capitale si rivolge quando è nei guai, senza considerazione per i reati contestati né per l’affiliazione politica. Sekulow non fa parte della schiera. Non significa che non sia noto nell’ambiente, anzi. Il 61enne “ebreo messianico” si è costruito un nome in società e anche fra il pubblico per le grandi cause sulla libertà religiosa e il primo emendamento, questioni infiammate per una parte d’America che vede nella battaglia legale l’ultimo ambito rimasto per combattere la guerra culturale. Ha difeso ebrei ortodossi, evangelici, pentecostali costretti dalle leggi a violare la propria coscienza, ha impugnato cause monumentali di gruppi pro life, insieme al televangelista Pat Robertson ha fondato la risposta conservatrice all’Aclu, l’associazione per i diritti civili, e a loro si rivolgono tutti quelli che si sentono oppressi da apparati legali troppo secolarizzati per avere diritto di cittadinanza nella “land of the free”. Per questa galassia religiosa Sekulow è un mito, per gli altri un avvocato qualunque, di certo non un penalista a suo agio nel difendere colletti bianchi in aula.

   

Deve la sua fama a un caso del 1987 arrivato fino alla Corte suprema. Rappresentava un gruppo di evangelici di nome “jews for Jesus” che lamentava le restrizioni messe dall’aeroporto di Los Angeles sulla vendita del materiale religioso, una chiara violazione del primo emendamento. Con una performance che il giornale American Lawyer ha definito “rozza e aggressiva”, Sekulow ha vinto una causa facile ma simbolicamente enorme: “Quando me ne sono andato dall’aula mi sentivo come devono essersi sentiti i Beatles quando hanno lasciato lo Shea Stadium”, ha detto. Da quella vittoria alla conduzione di un programma radiofonico il passo è breve, come sa chiunque conosca i meccanismi mediatici e i tic della destra religiosa. Sekulow si è costruito meticolosamente un personaggio arrogante, sempre proteso all’attacco, abrasivo e con la tendenza a raddoppiare la posta sul piatto ogni volta che è in difficoltà. Trump apprezza queste caratteristiche. E’ cresciuto alla scuola di Roy Cohn, leggendario avvocato che aveva teorizzato il contrattacco di fronte a qualunque accusa come modus operandi. I contenuti erano secondari, bisognava innanzitutto togliere il respiro, mettere paura. Nella sua prima performance televisiva per conto di Trump, Sekulow non ha messo paura a nessuno, e probabilmente ha capito cosa prova Sean Spicer quando si presenta di fronte ai giornalisti nella sala dei briefing. Non è semplice tenere una posizione con un cliente che smentisce la linea ufficiale dei suoi difensori.

   

Gli altri due membri della squadra, Marc Kasowitz e John Dowd, hanno molta più esperienza di lui in casi di questo genere, ma la scelta questa volta non è caduta su di loro. Dowd è una nuova acquisizione ma una vecchia conoscenza di Washington. Ha difeso diverse figure di alto profilo in politica e nel settore finanziario. Negli anni Ottanta ha rappresentato con successo John McCain in un processo legato uno scandalo bancario e ha fatto condannare una leggenda del baseball per una brutta storia di scommesse. Il suo ultimo caso da prima pagina, però, è quello di Raj Rajaratnam, il proprietario di un hedge fund che lui ha difeso da una imponente e ramificata accusa di insider trading. Il giudice ha condannato Rajaratnam a undici anni di prigione.

   

Kasowitz è il volto più noto della squadra. Avvocato e confidente di Trump per decenni, fra i suoi clienti ci sono l’oligarca russo Oleg Deripaska, con cui faceva affari l’ex manager della campagna elettorale, Paul Manafort, e la banca di stato Sberbank. A Kasowitz è toccato il compito, piuttosto ingrato, di vergare e recitare a caldo davanti alle telecamere la reazione alla testimonianza di James Comey, quella in cui sotto giuramento ha detto la famosa espressione: “Lordy, I hope there are tapes”. L’ex direttore dell’Fbi sperava (e spera ancora) che da qualche parte ci siano le registrazioni delle sue conversazioni a tu per tu con Trump, nella convinzione che questo basterebbe a dimostrare il tentativo del presidnte di mettere i bastoni fra le ruote alle inchieste. Sempre attenendosi al manuale di Cohn, Kasowitz ha negato tutto: Trump non ha chiesto “fedeltà” a Comey, non gli ha ordinato di terminare alcuna indagine, non ha instaurato un rapporto di “padronanza”, non ha esercitato alcuna influenza indebita né si è comportato in modo sconveniente.

  

A conti fatti, il trio Sekulow, Kasowitz, Dowd non è proprio da hall of fame della difesa forense, per usare un eufemismo, e le giornate degli avvocati sono innanzitutto dedicate a sbrogliare le infinite contraddizioni in cui incappa il loro assistito. Il contrasto non potrebbe essere più evidente con le mosse di Robert Mueller, il procuratore speciale che ha reclutato una favolosa squadra di avvocati per indagare sul presidente.

Di più su questi argomenti: