Il dibattito tv dibattito tv per le elezioni generali (foto LaPresse)

I politici fan finta di niente, ma gli scricchiolii Brexit si sentono forti

Cristina Marconi

Oggi si vota nel Regno Unito. L’economia è sotto grande pressione, l’incertezza frena i consumi. Le analisi degli esperti

Londra. Visto che l’economia britannica si è fatta la fama di indistruttibile, sopravvissuta com’è al voto sulla Brexit nonostante le previsioni funeste, in campagna elettorale si è deciso di non parlarne quasi, né di lei né di come i partiti intendono preservarla in vista di un negoziato che si preannuncia brutale. E pazienza se, per chi aveva la cura di prestare attenzione, dietro il frastuono inutile e i drammi veri delle ultime settimane si sono avvertiti anche i primi sinistri cigolii di una struttura sotto enorme pressione: inflazione ai massimi dal 2013, a un 2,7 per cento che secondo la Banca d’Inghilterra veleggia verso il 3, debito previsto all’88 per cento per l’anno in corso, la vetta dal 1966, produttività in calo, redditi disponibili piatti o in declino e una sterlina debole che ha portato le esportazioni ai massimi dal 2011, ma ha anche aumentato il costo per unità dei prodotti, pure quello ai massimi dal 2011. Tutti elementi in mano a due candidati che danno l’economia quasi per scontata, come se fosse lì a prestarsi docile a ogni rimaneggiamento, tra Theresa May che gioca col fuoco dell’isolamento e di un’assenza di accordo con Bruxelles e Jeremy Corbyn che vuole celebrare la fine dell’austerità qualunque cosa accada. Poi arriva l’Ocse, che dice che con questa Brexit così dura si arriva al 2017 con l’1,6 per cento e al 2018 con l’1 di crescita – peggio di così solo l’Italia – e con l’incertezza alle stelle. E l’incertezza, si sa, impedisce ai britannici di fare quello che sanno fare meglio per amor di patria: spendere.

 

“Le politiche hanno sostenuto la fiducia e i consumi, ma la spesa delle famiglie dovrebbe rallentare e la combinazione di un mercato del lavoro più debole e di un’inflazione più alta riduce la crescita reale dei salari”, si legge nel rapporto presentato mercoledì dall’Ocse. E anche se a loro piaceva l’austerità di Cameron e Osborne, ora gli economisti di Parigi chiedono investimenti e infrastrutture, per migliorare i collegamenti con le regioni più povere e migliorare la circolazione del sapere in un paese che vuole sostituire gli stranieri con una classe di lavoratori britannici ancora tutta da formare. Sono proprio le zone depresse del Regno Unito, quelle che hanno votato Brexit sperando di darsi un futuro più roseo, a rischiare di più. Chi punta su manifattura ed esportazioni agricole corre il pericolo di essere esposto “al rischio di protezionismo globale, che può far scendere i salari e aumentare le disuguaglianze”. Non ha molta fiducia che venga raggiunto un accordo di libero scambio con Bruxelles, l’organizzazione di Parigi, che basa le sue valutazioni sul fatto che si negozierà col resto del blocco con le regole del Wto, orizzonte che nessun economista serio considera contemplabile se non in un’ottica suicida.

 

“I costi per l’economia di un mancato accordo supererebbero di gran lunga quelli legati a un eventuale cattivo accordo”, scrivono John Springford e Simon Tilford in un paper per il Centre for European Reform. Elenchiamoli: tariffe sui prodotti britannici dell’ordine del 14 per cento per gli alimentari e del 10 per le auto, tariffe per le importazioni, standard vincolanti e tempi lunghi per le licenze per prodotti come i farmaceutici, perdita dei diritti di passporting per chi opera nella finanza. E quindi sterlina debole, inflazione, aumento dei tassi d’interesse. Certo, se poi si potesse avere un accordo commerciale rapido e negoziati meno tortuosi le cose potrebbero andare meglio, ma che cosa lascia pensare che avverrà? Non i piedi puntati della May, non la nebulosa confusione del piano laburista sulla Brexit. “La domanda è se l’economia possa sopportare le procedure di divorzio”, scrive Rain Newton-Smith, economista capo della Confindustria britannica: uno dei rischi principali è che le aziende usino tutte le loro risorse ed energie a pianificare la Brexit, “perdendo di vista i loro obiettivi strategici”. E poi l’immigrazione netta si è già ridotta di un quarto, con grande gioia dei brexiteers ma con ulteriori mal di pancia per i datori di lavoro che non sanno chi assumere, né nei campi di fragole né nel Silicon Roundabout.