Fuggire a Londra con birra in mano

Annalena Benini

Non è cinismo e soprattutto non è resa. È conoscere il massacro, e scegliere almeno lo stile con cui difendersi

Le persone fuggivano dal London Bridge lo scorso sabato sera, fuggivano come tutti fuggiamo, spaventati, sotto attacco, in emergenza. Ma l’immagine che è rimbalzata ovunque di questa fuga inglese mostra un ragazzo con una birra in mano. Corre, ma facendo attenzione a non rovesciare la sua pinta. Scappa, ma non ha intenzione di abbandonare una delle cose odiate da chi lo vuole morto: il divertimento, l’alcol, comprare una birra in un locale, stare in giro tutta la notte, camminare a testa alta, quell’attimo di giugno per le strade di Londra. Una minaccia di morte improvvisa e selvaggia non è una ragione sufficiente per rinunciare a una birra fredda.

 

“London pride, in un bicchiere”, ha scritto qualcuno via Twitter, e quella fotografia insieme allo stupore provocava un sollievo, come una possibilità di contenimento, di sarcasmo che prende la distanza dal terrore pur avendoci a che fare da vicinissimo, tre attacchi in tre mesi, il concerto della bambine a Manchester, il London Bridge il sabato sera quando è quasi estate e le persone sono spinte dall’urgenza di godersi il momento. I terroristi vincono se noi rovesciamo la birra per scappare? Se non usciamo più il sabato sera? O perdono se teniamo stretta la nostra birra, e dai ristoranti ai piedi del London Bridge lanciamo le sedie e le bottiglie contro i terroristi, e poi dietro l’angolo ci fermiamo appoggiati a un muro e beviamo un altro sorso, e diciamo che questo è il prezzo di vivere a Londra, in una grande città, in un luogo così esposto alla furia di questo tempo.

 

Molti dicono che questa è una resa, l’abitudine all’emergenza e alla fuga, l’assuefazione al terrore: chiunque possa procurarsi un coltello, un furgoncino, un accesso a Internet, una finta cintura esplosiva, sa che può seminare morte, e noi abbiamo solo la nostra birra, le sedie, i bicchieri, il nostro divertimento, gli inglesi hanno questa attitudine a essere James Bond, in smoking dentro un massacro, ma anche la tendenza a essere Liam Gallagher, degli Oasis, che a Manchester ha suonato le sue canzoni e ha scritto al fratello Noel, assente dal concerto, su Twitter: “Avresti dovuto salire su un cazzo di aereo e suonare le tue canzoni per i ragazzi, sfigato del cazzo”. C’è orgoglio, non c’è reticenza, c’è il realismo di chi sa che qualcosa è cambiato è questa è la vita, adesso: scappare con una birra in mano, se necessario, salire su un aereo e andare a Manchester a suonare, scrivere a Donald Trump, come ha fatto J.K.Rowling, la creatrice di Harry Potter, che quella di Theresa May “si chiama leadership, Donald. I terroristi sono morti otto minuti dopo la chiamata alla polizia. Se ci servirà uno sbruffone allarmista, ti chiameremo”. Non è cinismo e soprattutto non è resa, è il manager ventitreenne di un ristorante di Sushi a Borough Market, che ha fatto scendere tutti nel sottoscala e ha distribuito i coltelli da cucina per difendersi corpo a corpo, se necessario. È il tassista che ha fatto inversione con la sua auto e ha cercato di investire un terrorista. È conoscere il massacro, e scegliere almeno lo stile con cui difendersi.

  • Annalena Benini
  • Annalena Benini, nata a Ferrara nel 1975, vive a Roma. Giornalista e scrittrice, è al Foglio dal 2001 e scrive di cultura, persone, storie. Dirige Review, la rivista mensile del Foglio. La rubrica di libri Lettere rubate esce ogni sabato, l’inserto Il Figlio esce ogni venerdì ed è anche un podcast. Ha scritto e condotto il programma tivù “Romanzo italiano” per Rai3. Il suo ultimo libro è “I racconti delle donne”. E’ sposata e ha due figli.