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In Cina la sharing economy realizza il sogno comunista

Eugenio Cau

Nel paese del dragone sharing economy significa condividere davvero di tutto: biciclette, ombrelli, cavetti per l’iPhone, caricabatterie, palle da basket

Roma. Il trend è noto: un fenomeno economico nasce e si sviluppa in America, ottiene successo, poi è importato in Cina, dove viene portato alle sue più estreme conseguenze. Prendiamo la sharing economy: nata come applicazione digitale di un fenomeno esistente da sempre grazie al genio di alcuni imprenditori, come Travis Kalanick di Uber e Brian Chesky di Airbnb, la sua espansione è stata così fenomenale da diventare cliché. Nella Silicon Valley, quando un giovane imprenditore vuole promuovere la sua startup, il modo migliore di farlo è dire: la mia impresa è la Uber dei camion, la Uber degli sciatori, la Uber dei succhi di frutta. Sembra che si possa fare sharing economy su qualunque cosa, ma è solo in Cina che questo concetto è stato esaurito e piegato fino alle sue massime potenzialità: in Cina, si fa sharing economy con qualunque, ma proprio qualunque cosa. Non c’è solo Didi, la versione cinese di Uber che ha cacciato l’originale dal paese grazie ai suoi migliori agganci politici e a una strategia di espansione ancora più spietata di quella di Kalanick. Non ci sono solo compagnie come Xiaozhu e Tujia, che hanno imparato e perfezionato per la realtà locale la lezione di Airbnb e stanno rendendo un tormento l’ingresso dell’originale nel mercato cinese. In Cina sharing economy significa condividere davvero di tutto: biciclette, ombrelli, cavetti per l’iPhone, caricabatterie, palle da basket.

 

I primi sospetti che in Cina si stesse gonfiando una bolla della sharing economy sono iniziati nei mesi scorsi, quando hanno iniziato a circolare sui media internazionali fotografie dei marciapiedi di Pechino completamente ingombrati da biciclette colorate. Sono i mezzi messi in strada dalle app di bike sharing che in pochi mesi in Cina hanno conquistato decine di milioni di utenti e centinaia di milioni di dollari in investimenti. Le due compagnie principali sono Ofo e Mobike, la prima vale un miliardo di dollari, la seconda poco meno, e grazie a un’app consentono di noleggiare biciclette a cifre ridicole, pochi centesimi di euro all’ora, e di lasciarle parcheggiate ovunque in giro per la città – tanto è tutto geolocalizzato. Ofo, Mobike e altre società di bike sharing hanno iniziato un trend che non si è più fermato. Secondo il sito Tech in Asia, il maggior impazzimento generale dopo la condivisione delle biciclette è quello delle batterie portatili per smartphone: in bar, ristoranti e locali aziende come Xiaodian e Jiedian noleggiano per pochi spicci batterie portatili da usare e restituire. Poi ci sono gli ombrelli. Il fondatore di Molisan ha detto al New York Times: “Tutti in casa abbiamo un sacco di ombrelli, ma non li abbiamo mai a portata di mano quando ne abbiamo bisogno”. Da qui l’idea di disseminare le città di distributori di ombrelli noleggiabili a pochi centesimi – ovviamente grazie a un’app. Si segue con la condivisione di palle da pallacanestro nei campetti cittadini, e altro ancora.

 

Il governo cinese ha stimato che entro il 2020 la sharing economy varrà un decimo dell’intero pil del paese. Gli analisti sostengono che il vero premio di questo tipo di business non sia il margine risicatissimo e spesso inesistente sul costo del noleggio ma, come spesso accade, i dati che si possono raccogliere sulle abitudini di utilizzo degli utenti. Molti imprenditori cinesi vedono nella possibilità di condividere qualsiasi cosa grazie alle app e alla diffusione capillare di metodi di pagamento “mobile only” una miniera d’oro, ma la sharing economy cinese ha ormai gli aspetti di una bolla sul punto di scoppiare. Ciascuna delle app citate ha ricevuto milioni di dollari di finanziamenti, a volte decine e a volte centinaia, ma per la maggior parte presenta modelli di business apparentemente insostenibili. Alcuni analisti cinesi la vedono diversamente. Come ha detto l’imprenditore Andy Tian al New York Times: sarà anche una bolla, ma solo qui da noi si poteva realizzare questa apoteosi della sharing economy: una società in cui tutti condividono tutto, in fondo, è la realizzazione del sogno comunista.

 

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  • Eugenio Cau
  • E’ nato a Bologna, si è laureato in Storia, fa parte della redazione del Foglio a Milano. Ha vissuto un periodo in Messico, dove ha deciso di fare il giornalista. E’ un ottimista tecnologico. Per il Foglio cura Silicio, una newsletter settimanale a tema tech, e il Foglio Innovazione, un inserto mensile in cui si parla di tecnologia e progresso. Ha una passione per la Cina e vorrebbe imparare il mandarino.