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Cosa cambia senza Trump nell'accordo di Parigi

Maria Carla Sicilia

Il giorno dopo le parole del presidente americano, in fondo, è tutto uguale a prima. Quello che non è stato fatto fin ora per il clima globale e quello che potrà fare l'America da ora in avanti, anche da sola. Parla il professore Alberto Clò

Il giorno dopo l'annuncio della Casa Bianca di uscire dall'accordo di Parigi analisti e semplici commentatori hanno sollevato dubbi e paure per il futuro del pianeta. L'obiettivo di contenere di due gradi il riscaldamento globale potrà essere raggiunto anche senza il contributo americano? Le emissioni aumenteranno, le centrali a carbone – quelle che Donald Trump ha evocato durante la sua campagna elettorale – produrranno più elettricità e gli investimenti in rinnovabili caleranno a picco? Detta così sembra che i cambiamenti climatici consumeranno il nostro pianeta, e sarà tutta colpa dell'America. Per fortuna la questione è estremamente complessa e forse le conseguenze della scelta americana non sono poi così drammatiche. “L'annuncio di Trump è arrivato ieri perché al G7 di Taormina il presidente americano è stato messo con le spalle al muro”, spiega al Foglio Alberto Clò, professore di economia all'Università di Bologna e direttore della Rivista Energia.”Ora dovrà affrontare i muri interni: i singoli stati, i giudici e una parte di repubblicani. Ma non avrà problemi sul fronte esterno”.

   

Quando gli chiediamo cosa cambierà dopo le parole di Trump, Clò si ferma prima a tracciare un quadro di cosa è cambiato da quando 196 stati hanno firmato l'accordo sul clima, a Parigi, nel 2015, cioè poco o nulla. In Europa l'unico stato ad aver adottato un piano concreto di transizione energetica per raggiungere gli obiettivi della COP22 è la Germania, investendo diversi miliardi di euro per aumentare la penetrazione della quota di rinnovabili nel sistema energetico. Nel frattempo però il governo tedesco non ha saputo ridurre la sua dipendenza dalle centrali a carbone, da cui dipende il 40 per cento della generazione elettrica del paese (e l'80 per cento delle emissioni di anidride carbonica).

   

     

   

Se gli altri stati non hanno ancora fatto nulla per muoversi verso gli obiettivi di Parigi è perché la transizione energetica costa tanto e comporta un cambiamento di stile di vita che la società europea, e occidentale in generale, non è forse così disposta a compiere. Senza considerare che l'accordo non è neppure vincolante né prevede sanzioni, ma è applicato su base volontaria, come volontaristici sono i limiti alle emissioni fissati dai singoli paesi. “E' che in Europa ci sono altre priorità” – dice Clò – “altre emergenze. Ma se pensiamo sia urgente agire, facciamolo, con o senza Trump”. Anche perché, al di là degli accordi di Parigi, come l'Europa affronterà nei suoi confini il passaggio dalle fonti più inquinanti verso quelle più sostenibili non dipende dall'America. E viceversa.

    

“Mentre in Europa la transizione avviene su spinta politica, con finanziamenti che vanno a ricadere sui cittadini, in America sono le dinamiche di mercato a sostenere il contenimento delle emissioni. Con il gas che ha un prezzo nettamente inferiore del carbone, vista l'abbondanza di offerta, la sostituzione delle fonti avviene senza interventi politici e senza gravare su industrie e cittadini”. Guardando al futuro, anche fuori dall'accordo di Parigi, secondo Clò “l'America ridurrà le sue emissioni nei prossimi anni, come già ha fatto in passato: negli ultimi dieci anni sono calate del 10 per cento, il tutto lasciando che la shale revolution facesse il suo corso”. D'altra parte, già l'anno scorso, per la prima volta il carbone è stato la seconda fonte della generazione elettrica in America, perdendo il primato che conservava da anni e cedendo il posto al gas. Un processo inevitabile, che neppure le promesse elettorali di Trump ai minatori potranno fermare. Le stesse rinnovabili si sono ritagliate una nicchia economicamente solida, con investimenti di circa 45 miliardi di dollari negli ultimi anni: “Quegli investimenti non si fermeranno finché continuano ad essere redditizi, come ci aspettiamo che sia”, dice il professore. Se tutto continua business as usual l'America non inquinerà di più di quanto non avrebbe fatto e non inciderà negativamente sullo scenario attuale, che vede l'86 per cento dell'energia globale derivare dalle fonti fossili e il 3 per cento dalle nuove rinnovabili (eolico e solare). La sproporzione è grande, quanto lo sforzo per ridurla e con lei ridurre le emissioni di anidride carbonica. “Ci vorranno decenni per decarbonizzare l'economia. Se pure venissero rispettati tutti i vincoli di Parigi e se pure avessero gli effetti attesi, l'obiettivo di ridurre la temperatura globale non sarebbe comunque garantito”.

   

    

  

Intanto resta da pianificare come affrontare la transizione energetica per i prossimi decenni e sarebbe opportuno tenere in considerazione le ripercussioni di tali decisioni sugli investimenti. “Cosa dovrebbe fare oggi l'industria fossile?”, chiede retoricamente Clò. “Nel presente si trova a fronteggiare i prezzi bassi dello shale oil, mentre guardando al futuro si scontra con le politiche climatiche prospettate dai vari stati: se prese in parola gli scenari futuri renderebbero insostenibili nuovi investimenti e si finirebbe per lasciare sotto terra le riserve di fossili”. In un caso del genere c'è solo da sperare di aver programmato bene i tempi della transizione energetica.

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